di FEDERICO FORMIGNANI
Nel 1560 Gian Paolo Lomazzo fondò, con altri milanesi eruditi e un po’ svitati, l’Accademia dei Facchini della Val di Blenio. Scopo: scrivere poemi in una “lingua dialettale” creata loro…

 

“…Or vign bogn ross, besogna c’or siglia nassud in lug succh su ona costera avolta cog staga or so da ra mattina fign sira” (il vino rosso buono, bisogna che sia nato in luogo asciutto su un alto pendio che stia al sole dalla mattina fino a sera), spiega Compà Zavargna, “…Abàa dr’Accademiglia de Brègn” (Abate dell’Accademia di Blenio), una delle valli del Canton Ticino.

Compà Zavargna è Gian Paolo Lomazzo, noto pittore milanese vissuto tra il 1538 e il 1600. Spirito irrequieto, in giovanissima età compone poesie e trattati vari e a soli ventidue anni completa i primi cinque volumi del suo “Trattato dell’Arte della Pittura”, oltre all’altro libro – riveduto in età avanzata – “Idea del Tempio della Pittura”. Sono di questo periodo i primi interessi per quella che sarebbe divenuta la celebre “Accademia”. Con altri noti artisti dell’epoca (Brambilla, Giussani Maderni, Azziglio, Soncino e persino un Visconti), Gian Paolo Lomazzo redige uno “Straducch” (Statuto) sulla base di quello esistente per la Corporazione dei Facchini della valle ticinese.

I nomi che questi milanesi un po’ pazzi e un po’ anticonformisti si danno hanno il sapore delle cose buone dei bei tempi andati: oltre a Compà Zavargna, abbiamo i Compà Vinàsc (vinaccia), Pestavign (pestavigne), Bocca-Fresca, Sgürabrent (pulisci brente) e Scannavassel (rompi botti)! Tutti personaggi collegati al mondo del vino. La letteratura del tempo è tronfia, ampollosa e gli amici, quasi per gioco ma convinti di poter dire qualcosa di nuovo, scrivono poemi creando una lingua-dialettale tutta loro, modellata con impegno sulla parlata del paese di Malvaglia soprattutto ed attingendo a piene mani vocaboli ed etimi anche dagli altri centri della Valle: Semione, Prugiasco, Castro, Lottigna. “…ra rengua d’Bregn” (la lingua di Blenio) è in sostanza un dialetto alterato di proposito da Lomazzo e compagni, che non escludono aggiunte di consonanti aspre, cambi di vocale. Su tutto un rotacismo persistente ormai scomparso nei dialetti annacquati dei nostri anni. Dato che il “bleniese” è lingua d’obbligo per tutti i componenti dell’Accademia, la letteratura si arricchisce d’una grafia tipica, di parole la cui ortografia è senza alcun dubbio caricaturata.

Precisa Ferdinando Fontana, autore della celebre “Antologia Meneghina” pubblicata nel 1915, che la stessa parola “Accademiglia” va letta “Accademillia”, con quella “elle” consonante mouillé, tipica del francese. I vocaboli così modificati sono innumerevoli: triglionf (trionfo) per trionf; bizariglia (bizzarria) per bizarìa e addirittura sapiplienziglia (sapienza) per sapienzia. Occorre tenersi informati, in Accademia: l’uso di termini aspri e indocili all’orecchio è davvero scoppiettante! Altra tipica libertà interpretativa dei terribili accademici è quella di chiudere molti vocaboli dialettali mediante l’aggiunta di una “acca”, cosa questa che finisce per inasprire e rendere gutturali parole e verbi altrimenti dolci quali lècc (letto), scrìcc (scritto), nàcc (andato), fàcc (fatto). Secondo i dettami dell’Abate Zavargna, indiscusso capo della simpatica brigata, si scriverà e dirà al contrario: lècch, scrìcch, fàcch; persino il semplice sogètt (soggetto), si trasforma nel tutto sommato ridicolo soghìtt.

L’audacia dei riformatori non conosce ostacoli lessicali né di grammatica. Il passato prossimo coronòu (coronato), che al plurale diventa coronèi – così prescrive il dialetto autentico della valle – viene allegramente milanesizzato in coronàd. Gli accademici scrivono, dettano (è il caso del Lomazzo, purtroppo cieco), bevono con mano ferma, mangiano e stanno in allegria. Compà Zavargna decide di chiamare Rabisch (Arabeschi) la raccolta dei molti versi nati nelle riunioni conviviali; questa raccolta vede la luce per la prima volta nell’anno 1589, mentre una seconda edizione esce nel 1627. Nel 1600 Paolo Lomazzo muore a Milano all’età di “…annorum 60 vel circa, ex febre et catharro, sine peste suspicione”.

Gli abitanti della Val di Blenio seguitano ad emigrare nel capoluogo lombardo dedicandosi ai mestieri più vari: marónée (venditori di caldarroste), ciccólatée (cioccolatai), boìs (rosticcieri), polentàtt (venditori di polenta), coeugh (cuochi) ed altri ancora quali facchini, osti e “bravi”, truci guardie del corpo immortalate dal Manzoni. L’emigrazione è quasi sempre fenomeno invernale; d’estate il valligiano torna tra i suoi monti ed assapora, assieme ai versi di Compà Zavargna, quel vino che, per essere buono, deve avere “…un corò come un rubin chier e resplendent e bell e col solta in di gl’ucch quand or se bev…” (un colore come un rubino chiaro, risplendente e bello e che salti agli occhi quando si beve).