di FEDERICO FORMIGNANI
Nel derby linguistico nazionale, la favella toscana prevale, ma di poco, su quella settentrionale. Che spesso ha imposto alcuni termini proprio grazie all'”aiuto” di Dante. Eccone un florilegio.
L’area delle parlate venete è stata la prima ad accogliere l’espansione del toscano ed a riconoscerne la supremazia in campo nazionale: le altre grandi zone del Nord che gravitano attorno ai centri maggiori (Milano, Torino, Genova, oltre all’Emilia) hanno cercato di imporre – per secoli, dal tardo medioevo in poi – la propria parlata e la propria cultura, mutuata da ragioni storiche, politiche ed economiche nei confronti della lingua di Dante, finendo poi per soccombere all’evidenza dei fatti.
Ma non si è trattato di una resa senza condizioni.
Molti vocaboli “padani” – e gran parte di essi sono lombardi – sono trionfalmente entrati in lingua e ben difficilmente ne verranno in futuro scalzati. È vero che in molti casi è possibile usare il termine toscano piuttosto che il lombardo: in altre situazioni si verifica però l’esatto contrario. Siamo dunque di fronte ad un vero e proprio “bilinguismo”, come si potrà notare dalle parole che seguono.
La prima è “adesso” (lombardo adèss), vocabolo che si oppone con sempre maggiore insistenza ad “ora”: adesso è un antico gallicismo; nel francese antico, infatti, ades significava “subito”. A nostri giorni sta rimpiazzando il più popolare “ora” persino in Toscana. Altro esempio: l’italiano “pioppo” ha trovato qualche impiego, nei secoli scorsi, col termine “pioppa” al femminile, dal latino populus di genere femminile ed è stato poi naturalmente tradotto in settentrione con pubia, pobia, arrivando appunto ad essere italianizzato in “pioppa”, termine comunque errato.
Dove il vocabolo toscano appare maggiormente corretto rispetto a quello lombardo è il “oggi” al posto di ancoi: quest’ultimo termine, usato per ben tre volte da Dante nella Divina Commedia, è settentrionale (veneziano ancuo. Lombardo incöo) e deriva dall’antico francese encui (ancor oggi) a sua volta collegato al latino hinc hodie.
Altro vocabolo del nord: barba (zio), usato anche da Dante, ormai quasi completamente rimpiazzato dal termine di derivazione greca; sopravvive solo in alcune zone montane di Lombardia, Piemonte e Veneto. Il match è al contrario quasi in pareggio tra “serpe” e “biscia”: il primo è toscano e il secondo (bissa) è presente in Lombardia e Veneto. Altra parola toscana è “capo” (latino caput) che al nord ha subito un’apocope significativa: cò in Lombardia e coo a Milano (pronuncia: cu). Lo scrittore fiorentino Pulci e quello emiliano Boiardo, qualche secolo addietro, hanno fatto uso della parola settentrionale “gallone” (in vari dialetti lombardi garon, galun), al posto della toscana “fianco”, oggi di uso generale. Altro vocabolo lombardo soppiantato dal toscano: “ghiaccio”, lombardo giàs, reperibile nell’Orlando Furioso. Sempre il sanguigno emiliano Boiardo impiega la parola panza (decisamente nordica) in contrapposizione alla toscana ed italiana “pancia”, un tempo chiamata “epa”; a panza, naturalmente, si arriva seguendo lo sviluppo fonetico delle parlate del nord. Altro termine settentrionale è ploia (pioggia); in milanese è pioeuva, altrove plöia. La parola ploia viene impiegata anche dal sommo poeta per ragioni di rima; parola questa di eredità provenzale, in seguito sostituita dal vocabolo toscano. Nel 1820 Vincenzo Monti protesta contro la preferenza accordata dagli Accademici della Crusca alla parola “asse” rispetto a quella lombarda sala; le proteste non approdano a nulla di concreto: il latino ferrum axale diviene “la sala” e quindi “asse”. Stessa sorte tocca a “sartore” (sarto) lombardismo usato anche da padre Dante.
Possiamo concludere questa breve carrellata con alcune parole lombarde che hanno avuto il sopravvento su quelle toscane: “fazzoletto” (settentrionale) e non “pezzuola”; “rugiada” (dal lombardo rosada, rusada) e non la toscana “guazza”. L’affermazione del vocabolo padano è dovuta a Dante (sempre lui!). Abbastanza curiosa è la storia della parola “ciliegia”. Lo studioso tedesco Rohlfs la ascrive tra i termini toscani di sicura origine settentrionale (sciresa in milanese, seresa in altre parlate padane). Il termine meridionale, ancor oggi largamente usato, è cerasa. Lo studioso tedesco sarebbe anche propenso a credere che il vocabolo oggi in uso provenga dal francese antico celise. Il penultimo vocabolo è “formaggio”; parola dominante nella lingua italiana, arriva dal francese medievale, anche se largamente usato nel settentrione della penisola. Il termine toscano è cacio e nei confronti del primo suona talvolta un po’ troppo popolare, pur se è cacio a derivare dal latino e non formaggio. Infine, “padre” e “babbo”. Il primo, entrato in lingua con la variante “papà”, è di largo impiego nei dialetti del nord (milanese pader). Il secondo è tipicamente toscano e Dante lo definisce nel suo “De Vulgari Eloquentia” addirittura puerilis (infantile). E se lo dice Dante, possiamo crederci!