di FEDERICO FORMIGNANI
Bagnacauda, culatello, agnolotti, tortellini, fesa, mascarpone, grissini, gianduiotti e perfino Barolo: sono solo alcune delle parole che italiano ha ereditato direttamente dalle voci dialettali. Digestivi compresi.
Sono numerose le parole della lingua italiana che conservano un’impronta decisamente dialettale, a seconda delle regioni dalle quali provengono. Ecco alcuni esempi: dal “passamontagna” piemontese all’“abbaino” ligure; dal “barbone” di Milano al “giocattolo” di Venezia; dai “tortellini” emiliani alle “caldarroste” romanesche; dalla “bancarella” napoletana alla “zagara” siciliana. Queste e le molte altre di questo articolo sono contenute in un interessantissimo studio (“Le parole dialettali“) pubblicato nel 1986 e dovuto al veneziano Paolo Zolli (1941-1989), Ordinario di Dialettologia italiana nelle Università di Udine e Venezia.
La scelta è limitata in questo caso alle parole dell’area padana che riguardano la gastronomia.
Cominciamo dagli antipasti. In Piemonte abbiamo la bagnacauda, intingolo preparato con olio, aglio e acciughe, in cui s’immergono verdure crude; la bagna è l’intingolo, il sugo, mentre cauda in piemontese sta per “calda”. Sempre per stuzzicare l’appetito, ci sono gli squisiti salumi emiliani. Il culatello, che a Parma e Piacenza ricavano dalla coscia del maiale; il cotechino, già noto nel Settecento, citato nell’epistolario del romagnolo Vincenzo Monti e lo zampone, orgoglio di Modena; persino il romano Giuseppe Gioachino Belli, in un suo scritto del 1838, ne loda la bontà.
I primi piatti dialettali abbondano. Il Piemonte ha gli agnolotti, la Liguria le trenette al pesto; il dizionario genovese del Casaccia, dell’Ottocento, così descrive il pesto: “…è una specie di salsa o condimento che si fa alla minestra e si compone di basilico o maggiorana o prezzemolo, di aglio e cacio, pestati insieme nel mortaio o sciolti con olio e acqua in cui fu cotta la minestra che si vuol condire”. Garibaldi ne era oltremodo goloso. Contraltare alla pasta, ecco il riso: “…fra le maniere di preparare il riso, la più tipica è quella del “risotto alla milanese”, cioè con zafferano”. Lo ricorda Alfredo Panzini nella prima edizione del suo fortunato Dizionario Moderno (1905).
Scendiamo in Emilia dove troviamo le tagliatelle, i tortellini (turtlèin) e i cappelletti (caplìt). Il serioso Tommaseo così descrive i tortelli: “…larghi pezzi di falde sottili di pasta spianata col mattarello, entro cui è involto un ripieno di bietola o altro, con ricotta e uova”. Le tagliatelle vengono citate per la prima volta nel 1585, mentre i cappelletti entrano in lingua grazie all’entusiasmo di Giacomo Leopardi.
Passando ai piatti forti, notiamo che i dialetti hanno trasmesso alla lingua parole quali fesa, ossobuco e brasato (brasà): termini essenzialmente lombardi, questi. Nel Veneto, al contrario, le vivande arrostite, sbollentate e subito mangiate, vengono chiamate a scottadito (scotadeo): lo registra nel 1970 lo Zingarelli. Il pranzo continua ed è il momento dei formaggi. In Piemonte e in Val d’Aosta abbiamo la fontina; in Lombardia la scelta è davvero ampia: gorgonzola (‘zola), grana, mascarpone e stracchino “sponsorizzato”, quest’ultimo, niente meno che dal Manzoni! Boerio, nel suo Dizionario del Dialetto Veneziano del 1829, dice che il mascarpon è una specie di “…ricotta burrosa, notissima e molto in uso nella Lombardia, donde si porta nella stagione fredda anche a Venezia”. E tutto questo ben di Dio con cosa lo si mangia? Con i grissini torinesi che piacevano tanto a Carlo Felice di Savoia, con la michetta lombarda immortalata in versi da Emilio De Marchi e con la piada o piadina romagnola, ricordata da Giovanni Pascoli nei “Nuovi Poemetti”.
Alla fine del pasto, i dolci. Celebri i gianduiotti torinesi, figli della maschera popolare Gianduia; il pandolce ligure che piaceva a Mazzini; l’oramai inflazionato panettone milanese con l’uva passerina e i canditi e i baicoli veneziani, così chiamati per la loro somiglianza con dei piccoli cefali dall’identico nome. Nessun problema per le bevande.
Fra i vini ecco la Barbera e il Barolo piemontesi, prediletti da Giosuè Carducci; il Nebbiolo, che era già conosciuto nel Medioevo; la Vernaccia e lo Sciacchetrà, prodotti in Toscana e nelle liguri Cinque Terre. In Emilia abbiamo l’Albana di Bertinoro, già nota nel Trecento. Si finisce con il liquorino, il digestivo. Su tutti, la grappa (s’gnapa) o grappino lombarda (graspa nel Veneto e trapa a Trieste). Un tempo, nell’Italia del Nord era diffuso anche il mistrà, liquore d’anice immortalato da Giovanni Visconti Venosta nella famosa “Partenza del Crociato”.
Oggi, con gli spot-tivù, anneghiamo negli alcolici e negli amari.