di FEDERICO FORMIGNANI
Il letterato fiorentino (1540-1588) era così avido di sapere da scegliere il nome accademico di “Assetato” e come emblema una spugna (“mai sazia” il motto). Viaggiò molto, ma più che il numero dei paesi, conta l’acume con il quale li osservò e li descrisse nelle “Lettere”.
Filippo Sassetti nasce a Firenze il 26 settembre del 1540 e vivrà nella sua città sino al compimento del trentottesimo anno. Di famiglia agiata, è attratto dagli studi letterari. Frequenta l’università di Pisa per sei anni e nel gennaio del 1574 entra nell’Accademia fiorentina degli Alterati, scegliendo per sé il nome accademico di “Assetato”. Assetato di sapere, verrebbe da dire; infatti l’emblema prescelto è una spugna e il motto che l’accompagna recita: “mai sazia”.
I suoi interessi culturali sono di preferenza orientati verso la letteratura che non verso la filosofia. Studia Orazio, Dante, Petrarca e scrive saggi critici su questi e altri autori. Fra i contemporanei, segue con amore i colleghi accademici ma non apprezza le opere dell’Ariosto. Percepisce la grandiosità e la bellezza della recente scoperta dell’America e subisce il fascino di altre terre, anche se alle ragioni del viaggiare per guadagno preferisce quelle del sapere. Per aiutare il fratello che ha avuto rovesci finanziari, lo favorisce lasciandogli tutte le sue sostanze e decide di partire da Firenze.
Nel 1578 lascia l’Italia. Si stabilisce inizialmente a Siviglia, quindi a Madrid e tra la fine del 1581 e l’inizio dell’anno successivo raggiunge Lisbona, dove si fermerà e darà vita alla sua attività commerciale per conto della famiglia fiorentina dei Capponi.
Ed è proprio a Lisbona che Filippo Sassetti vive un periodo felice di benessere materiale e spirituale, pur avendo in animo di scoprire altri paesi e altre genti. Gli piace tutto della città e nelle sue famose “Lettere” si chiede: “…il dirvi sopra quanti colli ella sia posta non mi verrebbe fatto, perché, sebbene le valli principali che ella occupa sono tre, i colli sono più di dieci o dodici…”. Valli e colli significano alture e quindi continui saliscendi, con strade pressoché inaccessibili per i cocchi e le carrette; il paesaggio è delizioso, fa intendere Sassetti, ma subito dopo aggiunge maliziosamente che i “fidalghi” (gentiluomini) del luogo, non potendo percorrere queste strade a cavallo e men che meno a piedi perché esercizio non consono alla loro vanità, finiscono per non andarci mai!
Ma Filippo vede molto altro di Lisbona: la posizione unica dell’agglomerato urbano, con le case situate sulla costa e dalle quali “…scoprono il Rio (il Tago) pieno di navi e di legni…che maggior diletto non si potrebbe chiedere, potendosi stare alla finestra e vedere quelle tante e sì nuove cose”; ammette poi candidamente d’aver riproposto un verso originale del Petrarca: unica differenza, quello del poeta era un paesaggio italiano! Da perfetto cesellatore della lingua italiana, non vuole lasciare dubbi in chi legge sulle bellezze della città che lo ospita e scrive: “…questo è il più bel sito, a giudizio mio, che sia in Europa e se io mi ricordassi adesso dei luoghi da’ quali voi volete che le città si lodino, io credo per certo che pochi se ne lascerebbono, da’ quali Lisbona non si potesse lodare”.
Il viaggiatore fiorentino è, oltre tutto, un attento osservatore dei modi di vita della gente. Si accorge ben presto che l’atteggiamento tra chi vive in campagna e chi vive in città è differente. I contadini sembrano accontentarsi di ciò che la terra offre, che è in tutta onestà molto ma potrebbe essere di più, se loro vi prestassero le necessarie cure. L’olio prodotto ogni anno soddisfa le esigenze di consumo interno e consente la spedizione di migliaia di botti; così per il vino, tanto vino da consumare in Portogallo e da spedire in Brasile, India, nelle Fiandre e in Inghilterra. Anche il grano, trasformato in pane, è abbondante: ce ne sarebbe da far scoppiare la gente per il gran mangiare! Però, conclude Sassetti, “…non hanno molta voglia di lavorare e tutto è lasciato alla natura, con gli ulivi che fioriscono due volte l’anno ma vengono trascurati per cui solo ogni quattro anni danno il meglio di sé”. Stesso discorso per i traffici marittimi riferendosi al porto di Lisbona, annota: “…qui vengono insino dal mare diacciato le vettovaglie che la sostentano, cominciando da que’ porti sopra alla Polonia, per molte centinara e migliara di leghe”. Arriva di tutto: segale e altre biade, grani, caci, burri, pesci salati, carne salata; dalle Fiandre e dalla Gran Bretagna provengono uova, galline, galli e capponi, venduti “…a stia a stia” (gabbie grandi, dove si tengono i volatili all’ingrasso).
A questo punto Sassetti pare quasi voglia comprendere, se non giustificare, l’inedia dei locali: “…a che’ dunque strignerne la propria terra? Perché tanta fatica? Se le cose necessarie le son date dal sito e dal porto del più bel fiume che sia, a credere mio, in tutta Europa”.
Filippo Sassetti verrà ricordato non per essere stato uno che ha viaggiato molto, ma come uomo di lettere che ha indagato a fondo, per poi descriverli con minuzia, i luoghi e le persone che ha conosciuto, forse come pochi altri hanno fatto nel corso dei loro viaggi. La sua curiosità, il suo spirito d’osservazione, sostenuti da solide basi culturali, hanno dato origine alle famose “Lettere” che via via ha spedito a personaggi noti del suo tempo (il cardinale Ferdinando de’ Medici, il granduca Francesco I di Toscana) e ai molti amici e accademici di Firenze; lettere che dall’India, sua meta definitiva, hanno mostrato come fosse avido di imparare, assimilare e condividere le culture dei popoli che ha incontrato.