di FEDERICO FORMIGNANI
I modi di salutare e di brindare hanno le origini più strane, contorte, distorte e, a volte, remote: dall’aretino brènsolo al tedesco bring dir’s, fino allo schiavo che il Tommaseo bollava come un “tristo augurio di rifacimento”.
I maggiori dizionari italiani definiscono il “salamelecco” un saluto esageratamente ossequioso, un tantino sdolcinato, se non addirittura servile. Però gli arabi, con la formula salâm’alaik (“la pace sopra te”) non fanno che augurare, con dignità e sussiego, il miglior bene musulmano possibile. Dopo l’ave dei latini, resa celebre dai morituri che malgrado la situazione disperata si rivolgevano a Cesare con rispetto, arriva il “pace e bene” dei religiosi nostrani, saluto fraterno e cristiano nato nei secoli bui del medioevo. Peccato che tale esortazione sia in seguito quasi sempre caduta nel vuoto, sopraffatta da guerre, guerricciole, battaglie, disfide, pestilenze, carestie, raggiri, imbrogli, meschinità di ogni genere.
Col passare degli anni, ecco che la salutatio romana si affianca alle altre formule di saluto: origina il salutamento, la salutazione (XIV secolo) e il salutatóre (XV secolo). Il tutto, dal salutare del XIII secolo. Il verbo è cordiale, quasi carnale, tant’è che in alcune lingue panromanze (spagnolo antico e rumeno, per esempio) significa anche baciare.
Di saluto in saluto si arriva al confidenziale e insieme aulico “addio”. A nessuno sfugge che si tratta di un saluto in un certo senso definitivo; non a caso le varie formule dei differenti dialetti sostengono che “addio, è il saluto del boia”! Al contrario la locuzione ellittica addio (a Dio) si differenzia non poco da arrivederci, sottintendendo un “io ti raccomando al Creatore” che proprio non guasta. Tommaseo, nel suo monumentale dizionario, ricorda inoltre che addio può essere saluto non del tutto finale, quando usato nelle formule “addio a poi, a stasera, a più tardi”.
Dall’addio all’usatissimo e familiare “ciao”, il passo è breve; ciao è parola lombarda di origine veneta. Cherubini, nel suo vocabolario milanese-italiano la scrive ciavo, ciao e la fa derivare dall’espressione veneziana s-chiao (leggi s-ciao), vale a dire “schiavo, servo vostro”, ricordata dal Boerio nel suo dizionario veneziano del 1829. Le commedie goldoniane favoriscono la diffusione della parola che in seguito approda sulle rive dell’Arno, ma sempre il severo dalmata Tommaseo ne stigmatizza la toscanizzazione (“vi sono schiavo…”) definendola “tristo augurio di rifacimento”.
Va da sé che i saluti, specie se amichevoli e cordiali, predispongono gli animi a una generale bevuta in compagnia. I latini la chiamavano propinatio: “alicui praebibere” o “propinare” voleva dire brindare a qualcuno, festeggiarlo bevendo.
Ecco allora il “brindisi”, vocabolo già usato da Pietro Aretino nel 1534 (…contraffecero i Tedeschi con il brindisi) e mutato nel tempo come segue: brindis (1540), sbrinzi (1563), brindes (1582), brins (1587). Nell’anno 1583 troviamo il verbo brindisare che dà origine a varie forme dialettali tipo la napoletana brindez’z’are. “Brindare” è verbo del 1565, nato dal castigliano brindar.
Altre formule dialettali curiose: l’aretino brènsolo e il calabrese brìnghisi. Parola internazionale, brindisi, collegata anche alla locuzione tedesca bring dir’s (lo porto a te), vale a dire il calice o il boccale per bere alla salute di qualcuno. Espressione nata dalla soldataglia lanzichenecca e da questa trasmessa nel sedicesimo secolo a quella spagnola, allora presente nelle regioni dell’Italia del nord. L’atto del levare i calici, brindando, è stato poi accompagnato, un paio di secoli fa, dall’espressione “cincin” a tutti nota. Questo modo di dire ha lontane origini geografiche; risale infatti alla formula cinese di cortesia ch’ing-ch’ing (prego, prego) trasmessa nel 1700 agli inglesi e da questi esportata in altri paesi, tra i quali il nostro. Altri ricercatori ritengono che “cincin” provenga dal gergo marinaresco inglese e più precisamente da un pidgin anglo-cinese: una lingua mista usata dalla gente di mare.