di FEDERICO FORMIGNANI
Manzoni, Pessoa, Kraus, Goethe, Menandro, Chomsky, Magris, Lacan. Tutti hanno una massima sull’importanza della lingua e del linguaggio. La più bella però è di Leo Longanesi: “il professore di lingue morte si suicidò, per parlare le lingue che sapeva”.
Milioni, miliardi di parole pronunciate, lette, ascoltate in musica, hanno cominciato a invaderci già con i botti e i fuochi d’artificio dell’ultimo giorno dell’anno. La parola è comunicazione, prima di tutto; e la comunicazione è l’essenza del vivere civile. A ben pensarci, le parole dovrebbero rappresentare molto di più per il genere umano: trasmissione di emozioni e pensiero da un individuo all’altro; segnale sonoro carezzevole nelle angosce e rassicurante nel pericolo. Sappiamo che non sempre è così.
Il 2023 della comunicazione (verbale, scritta, musicata o twittata) si è ampiamente crogiolato nei difetti che da tempo (e malvolentieri) gli riconosciamo: verbosità astiosa, saccente e arida, concetti rattrappiti e scontati, volgarità gratuita e coprolalica, tortuosità di pensiero e d’esposizione, quindi fuorviante per chi avrebbe solo bisogno di ascoltare parole semplici e comprensibili. Un linguaggio dovrebbe essere – parole di Alessandro Manzoni – “lavorato dagli uomini per intendersi tra loro, non per ingannarsi a vicenda”.
Un altro grande scrittore (Fernando Pessoa) sosteneva che “non esiste grande nazione senza proprietà di linguaggio”, ma oggi vediamo che impazza una lingua che a volte, come la realtà, può essere vendicativa; constatazione questa espressa da uno scrittore dissacrante come Aldo Busi che conclude: “o la pensi o sei pensato; e se sei pensato, sei fritto”. Bello il sillogismo tra il “pensare” la lingua o esserne “pensato”: assorbire i pensieri altrui annegando i propri; da qui, la “frittura” paventata da Busi.
La rinuncia, a volte inconsapevole, ad amministrare i propri pensieri e regolamentare le personali emissioni vocaliche, è preda di svariate tentazioni: l’immediatezza dei “clic” inutili che generano altri clic di risposta; la scarsa lettura di testi che “dicano” qualcosa: ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta; ancora: la comodità di far propri pensieri o dictat altrui, senza chiedersi se siano validi o meno.
Così facendo, si svilisce l’importanza della lingua che al contrario, se ben impiegata, risponde ad ogni quesito, scioglie qualunque dubbio. In questo senso ci confortano i pareri autorevoli degli uomini di lettere. Samuel Johnson, poeta e critico letterario del Settecento inglese, dice ad esempio che “la lingua è la veste del pensiero” (calzante!) mentre Karl Kraus, poliedrico scrittore austriaco, ne sottolinea la nobiltà: “il linguaggio è la madre, non l’ancella del pensiero”. Persino un uomo che viveva di musica – Samuel Taylor Coleridge – compositore e direttore d’orchestra inglese, vissuto a cavallo fra il Settecento e l’Ottocento, sosteneva che “il linguaggio è l’armonia della mente umana; a un tempo contiene i trofei del passato e le armi per future conquiste”. Deve però essere un’armonia ben impiegata; ce lo ricorda Claudio Magris: “la correttezza della lingua è la premessa della chiarezza morale e dell’onestà”. Vero; con qualche concessione finale alla poesia: “la funzione del linguaggio non è quella d’informare, ma di evocare”. Ne è convinto Jacques Lacan, filosofo francese.
Non tutti gli uomini di pensiero arrivano alle medesime conclusioni, ad ogni modo. A cominciare da Giuseppe Prezzolini che giudica la lingua “un impoverimento del pensiero”; ancor più pessimista è Menandro, commediografo greco dell’antichità, secondo il quale “la lingua è causa di molti mali”; non ha tutti i torti, dopotutto, se si considerano i danni che un uso disonesto del linguaggio può provocare, quasi fosse un modo d’esprimersi primitivo e animalesco. Per fortuna ci conforta il pensiero di Noam Chomsky, celeberrimo linguista del MIT di Boston, che ci rassicura in questo modo: “il linguaggio umano sembra essere un fenomeno unico, senza analogie significative nel mondo animale”. Preoccupa un po’, al contrario, quanto afferma Wolfgang Goethe: “chi non conosce le lingue straniere non sa niente della propria”; semmai, parere personale, avrà solo qualche carenza, tutto sommato comprensibile. Possiamo concludere con le citazioni di questi “pensierini” linguistici con un tris davvero originale.
Di Frederick Jelinek, americano d’origine ceca, è il primo: “ogni volta che licenzio un linguista, l’accuratezza delle traduzioni migliora”; detto da lui, studioso delle tecniche di avanzamento linguistico, fa un certo effetto! Segue il pensiero originale (era un tipo serio e riservato) di Konrad Adenauer, uomo politico tedesco: “tutti gli organi del corpo umano occasionalmente si stancano, fa eccezione la lingua”, per concludere con la stralunata considerazione dello scrittore ed editore Leo Longanesi: “il professore di lingue morte si suicidò, per parlare le lingue che sapeva”. Felice di vagare tra greco, latino, egizio e sanscrito.