di STEFANO TESI
Per Carlo Romanelli, presidente di Cantina Frentana (Chieti), la pandemia produrrà effetti stabili sul mercato del vino. Bisognerà adeguarsi puntando su e-commerce, turismo, politiche di brand, identità, “green” e…pedali!

 

A nove mesi dall’esplosione del covid in Frentana cosa è cambiato sotto il profilo commerciale?

 

La pandemia ha impresso un’accelerazione ad alcuni processi che erano già in corso, in particolare la vendita online. Siamo ancora alle prime armi in questo campo ma stiamo crescendo. Per ora la scelta è stata quella di un e-shop proprietario, concepito come prolungamento e integrazione dell’attività del punto vendita e strumento di fidelizzazione dei clienti. La vendita diretta per noi è molto importante, malgrado il lockdown nel 2020 abbiamo aumentato gli incassi sul 2019, superando il mezzo milione di euro, e questo grazie anche alla vendita online. Siamo però convinti che si possa ancora crescere molto, soprattutto grazie a due fattori: lo sviluppo del turismo, e di un turismo meno limitato al “balneare” di quello attuale, per il quale abbiamo progetti specifici come cantina, e la crescita della vendita online, anche attraverso piattaforme specializzate, oltre che tramite il nostro e-shop. A giorni sarà online anche il nuovo sito internet, quello attuale è superato. Su questo siamo un po’ in ritardo, ma arriviamo.

 

Cantina Frentana è in prima linea nello “sdoganamento qualitativo” delle cantine sociali: la crisi rallenta il processo o lo favorisce?

 

Nell’immediato sicuramente non lo favorisce perché la crisi del settore horeca colpisce tutti i vini di qualità più alta, e questo rende più difficile giustificare retribuzioni alte ai viticoltori che fanno le uve migliori. Che poi è l’unico sistema per orientare i modelli produttivi in una cooperativa. Perchè posso dire tranquillamente che se le uve non sono eccellenti i miracoli in cantina non li fa nessuno. Sarebbe però un grave errore fare passi indietro e noi non li faremo, anzi andiamo avanti. Quando la crisi sarà superata, chi non si è limitato a tappare le falle vivendo alla giornata ma ha saputo insistere sui programmi di medio e lungo periodo, anche se nell’immediato pareva antieconomico, sarà premiato. Almeno questo è quello che speriamo. Il ruolo della comunicazione a questo riguardo è fondamentale. Purtroppo il pregiudizio sui vini della cooperazione è duro a morire. E’ acquisito ormai il concetto che la cooperazione fa i vini con il miglior rapporto qualità prezzo, ed è già un passo avanti rispetto al tempo in cui per qualcuno faceva solo vini mediocri o peggio. Ma non basta: se la cooperazione fa un vino di qualità straordinaria difficilmente questa viene riconosciuta e difficilmente si accetta di pagare una bottiglia quello che vale. In Italia come in Francia. Dobbiamo essere grati alle cooperative dell’Alto Adige per aver cominciato a sgretolare questo pregiudizio, offrendo sul mercato selezioni particolari a prezzi adeguati. Anche se non sono quelle poche bottiglie a “fare bilancio”, sono una bandiera di fondamentale importanza per l’immagine dell’azienda. Noi ancora non siamo arrivati a quei livelli, ma non dobbiamo porre limiti alle nostre ambizioni, pur restando con i piedi per terra. E pensiamo di avere già vini che possono puntare molto in alto.
In questa ambizione di qualità si collocano anche i programmi per migliorare la qualità ambientale di tutti i processi. Come insegnano gli esperti di marketing, ma in fondo basta anche il buon senso, esiste una qualità percepita che va al di là dell’esame organolettico di quello che c’è nel bicchiere, e investe l’immagine dell’azienda, la sua credibilità.

 

E questi programmi in cosa consistono?

 

A parte lo sviluppo della vendita diretta di cui già ho detto, in un periodo di grande “green washing” stiamo cercando di attuare una transizione ecologica vera e seria, sperando che se ne percepisca il valore reale. Ad esempio abbiamo ora la certificazione che tutta l’energia elettrica che consumiamo (e non è poca, tra i due impianti circa un milione di KWh all’anno) proviene da fonti rinnovabili. Abbiamo abolito il diserbo nei vigneti e sviluppato una linea di vini biologici. Ancora piccola, ma cresceremo. Abbiamo un servizio tecnico viticolo, supportato da una rete di stazioni meteo e di software di ultima generazione, per il monitoraggio del rischio di malattie, che ci consente di limitare il numero dei trattamenti,non solo per le aziende in bio ma per tutti. Cercheremo nel giro di due anni  di approntare il bilancio di sostenibilità. Per fare alcuni esempi.

 

In tempi di covid cosa si attende la base sociale: tutela del reddito, nuovi sbocchi commerciali, nuove strategie?

 

La governance di una cooperativa ha il dovere di ascoltare la base, ma anche quello di prendere decisioni che guardano avanti, e che talvolta non sono facili da spiegare ai soci, soprattutto in anni di “vacche magre”. Ad esempio nuovi investimenti, e aumenti di capitale sociale, perché la solidità patrimoniale è fondamentale. Quando facciamo l’assemblea di bilancio forniamo a tutti un quaderno ricco di testo e di dati, a partire da un’analisi del contesto nazionale e internazionale fino a tutti i principali elementi di analisi dell’andamento dell’azienda. Ma quasi tutti i soci, almeno in prima battuta, leggono solo l’ultima pagina, quella delle retribuzioni. Ed è comprensibile, vivono di quello, e fanno confronti. Ma spiegando bene le cose, e se c’è la fiducia verso la dirigenza, i soci capiscono il valore di certi sacrifici. L’agricoltore è per natura un risparmiatore, l’importante è fargli capire che la stessa mentalità deve trasferirla alla cooperativa. Senza esagerare, ma con un corretto bilanciamento tra la cicala e la formica. In Italia ci sono stati esempi di cooperative che hanno scelto la cicala, hanno pagato molto bene i soci, tutti contenti, ma poi i nodi sono venuti al pettine e sono cominciati i guai.

 

Ritiene che gli impulsi ricevuti a causa del lockdown avranno effetti duraturi sul vostro mercato?

 

A parte lo sviluppo della vendita online, per una grande cantina è ineludibile il rapporto con la GDO. Il lockdown ci ha obbligato a riconsiderare certe strategie, anche perché con la fusione con la Cantina Sangro abbiamo più vino da vendere. Noi come molte cantine abbiamo marchi specifici e diversi per i diversi canali. Il problema con la GDO è sempre quello della battaglia dei prezzi. Questo problema non riguarda solo il rapporto cliente-fornitore, ma investe la valorizzazione dei nostri vini, in particolare quelli a DOP, a livello istituzionale e consortile. Ad esempio il Montepulciano d’Abruzzo è un vino che vende molto nei supermercati, ma il prezzo medio è ancora basso, e si avvale poco di “brand” forti, anche perché l’azienda che ha un “brand” relativamente forte se vende alla GDO usa un altro marchio. Far crescere il valore della denominazione dovrebbe essere un obiettivo del Consorzio di Tutela. Che di campagne promozionali ne fa, ma forse campagne più mirate sulla GDO potrebbero essere utili per un prodotto che vende soprattutto lì.

 

Come si concilia l’identità territoriale dei vostri vini con sbocchi su piazze molto lontane, spesso slegate dal traino del turismo?

 

Facciamo un esempio. Col Cerasuolo avevamo problemi in America. Anche se lo facciamo meno carico di un tempo come colore, gli importatori volevano un vino più chiaro, leggero e beverino, più “da piscina” insomma. La Provenza detta la moda. La nostra scelta è stata quella di non snaturare il Cerasuolo, come forse hanno fatto altri, ma di produrre un IGT usando altre uve oltre al Montepulciano, un vino che rispondesse a quelle richieste. Imbottigliamo meno Cerasuolo, ma abbiamo decuplicato le vendite di rosato in USA. Il Cerasuolo “ce lo beviamo noi”, intendendo come tale anche la ristorazione locale, mangiando un brodetto di pesce, e pure d’inverno: poco male se si vende poco in Cina o in USA. Magari tornerà di moda. Ma un vino a DOP non può correre dietro a mode effimere, non dico che debba restare uguale nei secoli, ma almeno mantenere una certa identità. Tanto più che su un vino di questa categoria la denominazione di origine, soprattutto all’estero, conta abbastanza poco.

 

La vostra struttura di vendita e distribuzione come si è adattata e si adatterà ai nuovi scenari?

 

La nostra struttura di vendita è leggera, non abbiamo mai voluto una rete troppo strutturata, per mantenere una certa flessibilità. Questo comporta un grande impegno di lavoro e di viaggi per il direttore commerciale e per i suoi collaboratori. Dobbiamo dire che nel 2020 abbiamo raccolto qualche frutto di tutto questo lavoro, perché pur essendo molto limitati negli spostamenti, malgrado le fiere che sono saltate, gli eventi già prenotati e annullati, non abbiamo perso clienti, e anche il calo del fatturato, inevitabile soprattutto per la linea horeca, è stato relativamente contenuto. Gli adattamenti sono continui, ce li impongono i continui cambiamenti del mondo. Per questo è importante essere flessibili, sempre pronti a fare e disfare valigie e rapidi nelle decisioni.

 

Si diceva del turismo come traino del vino per il post lockdown: c’è già qualche idea?

 

Sì, è un progetto di cicloturismo chiamato Frentanabike, da noi ideato e promosso. Abbiamo individuato e collaudato alcuni percorsi su strada e su sterrato, tra boschi, valli, vigneti, oliveti, antichi tratturi. Percorsi ad anello che sfruttano in parte la Ciclovia Adriatica, la ciclabile litoranea ricavata sul tracciato della vecchia ferrovia. Piazzeremo sul territorio colonnine per la ricarica delle e-bike, ad esempio presso ristoranti e alberghi nostri clienti, e realizzeremo guide ed app per promuovere il progetto e accompagnare gli utenti. Puntiamo sul ciclismo turistico ma anche su quello sportivo. Per tutti quelli che passeranno in cantina ci sarà la possibilità di acquistare vini e prodotti tipici a condizioni speciali, facendoseli spedire. Per noi non è solo un modo per vendere più vino, ma anche un regalo di Frentana al suo territorio. Se cresce il territorio, cresciamo di sicuro anche noi.

 

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