E spesso te lo dice in faccia. A me accade da vent’anni. Cos’hai di diverso? La partita iva. Insomma, sei un ufo del giornalismo. Nel racconto di un collega rimasto scottato da poco, l’ennesima dimostrazione del perchè un censimento dei freelance serve. Eccome.

di ALESSANDRO FRANCESCHINI

(Premessa. Al sindacato ti guardano strano. All’ordine, pure. I colleghi idem. Nel 1993 ti dicevano che il tuo futuro era nei “service”, oggi se da freelance diventi professionista pensano che punti a un titolo onorifico. Nel sistema mentale della professione non è cambiato nulla. Per i culi di piombo del giornalismo i libero professionisti non è che non esistono: sono proprio una figura inconcepibile. Anche nel 2013. Anche alle porte dell’ennesimo contratto. Siamo trasparenti. Al massimo, dei clown con la penna in mano. Buona e – istruttiva – lettura. S.T.)

Ben che vada, siamo folklore.
Una sala con un centinaio di persone, sedute più o meno ordinatamente e tutte munite di portatile e chiavetta usb. Una nutrita schiera di giovani tra i 25 e i 30 anni (qualcuno, addirittura, più vicino ai 20), un’assortita pattuglia tra i 30 e i 40, un discreto gruppo di over 40, forse qualcuno più vicino ai 50, anche se si mimetizza bene. Ci sono quasi tre generazioni dentro una vecchia aula del P.I.M.E (Pontificio Istituto Missioni Estere) di Milano che ti accoglie con leoni e tigri impagliate, sede distaccata dell’Università Cattolica di Milano.
Obiettivo: frequentare un corso, obbligatorio, di 6 giorni, full-immersion, e poi provare a sostenere l’esame per diventare giornalisti professionisti.
Il motivo? In realtà nessuno lo sa.
Tra gli iscritti all’81esimo corso praticanti per l’esame di Stato organizzato dall’Ordine dei Giornalisti della Lombardia a settembre 2012 ci sono pubblicisti diventati d’ufficio praticanti, categoria dove il gruppo tra i 30 e 40 anni spopola e a cui mi pregio di appartenere, giovani praticanti ma anche praticanti da una vita. Risibile la schiera di contrattualizzati, magari a tempo indeterminato, affollata quella della ritenuta di acconto. Ben nascosta ma presente quella munita di Partita Iva.
Freelance, quindi? No, più blindati come orari ed esclusività di un tempo indeterminato, merce ambita da un qualsiasi giudice del lavoro, che ti farebbe vincere una causa a occhi chiusi, anche se poi dovresti cambiare definitivamente mestiere. Per lo Stato sono liberi professionisti: in realtà non sono liberi, professionisti.
Ma i veri freelance, quelli muniti di partita iva e che, soprattutto, lavorano con più casacche ogni giorno per più clienti, dove sono? Non saprei: forse ero l’unico presente, forse no. In realtà capirò alla fine dell’avventura che io non esisto: a causa del settore nel quale opero e soprattutto perché libero professionista.
Al netto delle lezioni teoriche, cannibalizzate da un avvocato che ti spiega come non finire davanti a un giudice per quello che scrivi, il clou della sei giorni è rappresentata da 4 simulazioni di prove d‘esame che consistono in:
– un articolo da 2700 battute da svolgere dopo aver scelto tra una ventina di tracce
– una sintesi da 1800 battute da svolgere dopo aver scelto tra due articoli di giornale
– il quiz, vale a dire sei domande aperte su temi che vanno dal diritto penale al civile, dalla costituzione ai codici deontologici passando per la storia del giornalismo.
Ora, uno che scrive di vino, cibo, ristorazione, ma volendo di agricoltura in generale, frutta, verdura e ancora di distribuzione, andamento del mercato di qualsiasi cosa bevibile o mangiabile, insomma, di qualsiasi cosa ti venga chiesto, pur che parta da un seme e si trasformi in qualcosa di commestibile, immagina che, nella prova più importante, vale a dire l’articolo da 2700 battute, avrà una discreta percentuale di trovare un argomento a lui più famigliare. Non dico il tuo argomento, quello no. Dico, vicino: basta che sia agricolo.
Invece no. D’altronde siamo in Italia, patria dei più grandi giacimenti enogastronomici del Pianeta e al tempo stesso della più grande mistificazione degli stessi, trattati, se va bene, come avanspettacolo di costume. Chessò, neanche uno straccio di traccia sulla sempre verde “dose consigliata di frutta e verdura quotidiana” o sul “calo dei consumi alimentari ai tempi della crisi” in cui rifugiarsi. Niente: il deserto.
Ci si adatta e, in fondo, è anche giusto farlo. Tralasciando lo sport, anzi il calcio, refugium peccatorum e tema gettonatissimo da una quantità industriale di colleghi che sciorinano il nome dei giocatori della Cavese del campionato 82/83 a memoria (con mia somma invidia), un giornalista si presume legga dei giornali, si informi, abbia un’opinione. E così è stato: utile, istruttivo ed interessante provare a scrivere di costume, società, addirittura economia e farsi correggere da professionisti del Sole24Ore piuttosto che del Corsera o del Giorno.
Divertente i primi giorni, inquietante nei successivi. Deprimente a fine corso, però, scoprire che tu, che scrivi di liquidi alcolici e mele, sei il solo tra i presenti appartenente alla categoria. E quando i tuoi colleghi di banco lo vengono a sapere accennano sguardi tra lo stupito e l’imbarazzato.
I più comprensivi mi hanno collocato nel genere “costume”, i più informati in “turismo e spettacolo”, i più spietati e numericamente nutriti in quello di “folklore”. Dopo qualche giorno di imperiosa reazione a tale sfregio, ho cominciato a scusarmi, a dire che non è stata colpa mia, che mi hanno costretto, a pentirmi. Ho nascosto la laurea in filosofia, altrimenti il micidiale mix composto da agricoltura&enogastronomia&istruzione umanistica mi avrebbe portato direttamente all’umiliazione pubblica.
C’è un aspetto positivo, però, in tutto questo: se anche non me ne fossi accorto prima in tutti questi anni, in quei giorni non avrei potuto fare a meno di comprendere come chi scriva di verticali e tannini viva in un mondo a parte, completamente autoreferenziale e con il costante rischio di perdere seriamente contatto con la realtà. Quando ti confronti con colleghi che si occupano quotidianamente di cronaca nera, questione palestinese o covered warrant, ti viene da pensare almeno un po’, anzi, facciamo anche più di un po’, che la realtà è qualcosa di più sostanziale e diversa dal dinamismo di un sorso di verdicchio di Matelica o dall’incidenza del granito rosa sul nebbiolo di Gattinara. Certo, non c’era bisogno di questo corso per averne evidenza, però, passare sei giorni con chi pensi faccia il tuo stesso mestiere, ma per il quale un vino è solo rosso o bianco e basta, è diverso.
I veri giornalisti sono loro. Tu sei, appunto, folklore.
Ma al di là della frustrazione e dell’invidia per chi scrive di cose più alte e nobili, il vero fastidio, salito lentamente fino a diventare rabbia è quello che arriva quando ti accorgi che continui a far parte del genere “folklore”, non tanto e solo perché vieni considerato come uno che si occupa di qualcosa che ha come fine ultimo solo finire negli scarichi delle fogne, quanto perché sei un libero professionista, dotato di una cosa orrenda: la partiva iva.
Al netto dello sputtanamento della parola, indice per i più di evasione fiscale e di ipotetiche agevolazioni – ho perso il conto delle persone che ti dicono: «ma tu scarichi» senza avere idea di cosa significhi questa mitologica pratica – per l’Ordine dei Giornalisti il libero professionista che svolge la professione di giornalista non esiste.
A specifica domanda circa i vantaggi nel passaggio da praticante a professionista o da pubblicista a professionista, per un freelance portatore sano di partita iva, un malcapitato esponente del Consiglio Nazionale dell’Ordine, dopo aver cercato di svicolare, ha capitolato: a nulla. Il suo saggio consiglio è stato: “Fatevi assumere il prima possibile da un editore” dando per scontato che aprire la partita iva e svolgere la libera professione non sia anche una scelta, ma un fallimento, una via obbligata in attesa di sua maestà il contratto a tempo indeterminato. Pensavo fossero rimasti solo mia mamma e i sindacati a ricordarmene l’ipotetica esistenza. Invece c’è anche lui, l’Ordine dei Giornalisti: pittoresco, folle, medioevale. Non ovviamente il contratto a tempo indeterminato, quanto il fatto che l’Ordine dei Giornalisti creda realmente che oggi la professione passi soprattutto dall’utopia del posto fisso. O semplicemente figlio di una visione distorta, alimentata dal numero impressionante di colleghi che, pur lavorando per un unico editore, tutti i giorni e con orari blindatissimi, sono costretti ad aprire la partita iva.
Che un giornalista sia pubblicista o professionista, se ha scelto o, per carità, è stato costretto a optare per la libera professione, i non diritti sono gli stessi: la posizione Inpgi rimane separata, l’accesso al Fondo Integrativo negato, Casagit un miraggio economicamente insostenibile. Sicché, perché spendere più di 1000 euro e ingurgitare a memoria un’infinità di nozioni per l’esame di Stato? “Beh, è un po’ come la laurea” è stata una delle risposte, da far rabbrividire e nei confronti della quale ho dovuto trattenere i più bassi e violenti istinti.
Quindi? Non c’è una risposta, o meglio, ce n’è una soltanto: per un libero professionista, essere pubblicista o professionista non fa alcuna differenza, se non una sorta, e tutta ipotetica, “soddisfazione personale” nel mostrare un tesserino piuttosto che un altro.
“Soddisfazione” che, serenamente, rimando al mittente e, eventualmente, riprenderò in considerazione se e quando l’Ordine scoprirà che esistono, sono vivi, in carne ed ossa, una pattuglia di giornalisti liberi professionisti che campano lavorando per una pluralità di soggetti e, quindi, in possesso di un partita iva. Una “vera” partiva iva, che si differenzia dalle tante altre esistenti, semplici escamotage imposti da un editore per abbattere i suoi costi e avere libertà assoluta.