La complessità e la profondità della crisi interista richiede calma, sangue freddo e il coraggio di fare scelte anche dolorose. Il mondiale per club è un’occasione irriperitibile per recuperare infortunati, mentalità, autostima. Ma non i punti perduti nè le carenze di organico. Bisogna solo vincere, molto e con continuità. E pazienza se il gioco latita.

Non c’è nemmeno bisogno di scomodare risultati e classifiche. Per accorgersi che l’Inter non è più quella stagione scorsa basta guardare, a caso e senza audio, mezzora di una partita qualsiasi.
E’ tutto diverso.
Diversi i giocatori: a causa degli infortuni (Julio Cesar, Samuel, Chivu, Maicon, Materazzi) mancano perfino le riserve della difesa e, a turno, due terzi del centrocampo (Stankovic, Mariga, Coutinho, Obi, Motta) e mezzo attacco (Milito e Suazo). Diverso, un po’ per scelta e un po’ per necessità, il gioco: la manovra aggressiva e viperina di Mourinho si è trasformata in una sorta di flipper al rallentatore, un ruminato e sterile tambureggiamento alle porte delle difese avversarie le quali, avendo il tempo di chiudersi, non lasciano spazio. Il resto lo fanno la forma a dir poco scadente di uno spremuto Sneijder, la mancanza di un Balotelli (Biabiany non ne ha né la capacità di penetrazione sulla fascia né quella balistica in area) e l’assenza ormai quasi cronica del Principe. Aggiungiamoci l’incomprensibile e forse irreversibile involuzione di Santon e il fatto che il grande Xavier Zanetti ha comunque 37 anni e non si può pensare di appellarsi sempre a lui come tappabuchi e salvatore della patria.
Diverse forse, dopo cinque scudetti e un triplete storico, le motivazioni (più inconsapevoli che consapevoli e questo è peggio). Diverso lo stato di forma generale, inevitabile (e prevedibile) dopo una cavalcata logorante come quella del 2009/10 e un mondiale che, in ogni caso, ha attinto a tre quarti della rosa interista restituendo giocatori stanchi, infortunati, acciaccati, psicologicamente esausti. Diversa anche la sorte che, in certi casi, aiuta e che invece stavolta sembra mettercela tutta per remare contro. Diverso, infine, l’allenatore. Un allenatore che adesso francamente sembra molto più perplesso e indeciso di quando è arrivato. E che ha cominciato – brutto segno – a ridimensionare obbiettivi che solo quattro mesi fa sembravano quasi acquisiti: supercoppe, campionato, Champions, Mondiale per club.
In tutta onestà non credo che in questa crisi Benitez abbia delle responsabilità dirette, salvo forse aver sottovalutato (come il presidente e la dirigenza), il logorio generale della squadra. Rafa è un ottimo allenatore, esperto, vincente. Ma non è Mou. Non ha quella diabolica capacità gestionale, organizzativa e motivazionale che aveva il portoghese. La stessa che gli ha consentito l’anno scorso, disponendo di una grande squadra ma forse non la più forte in assoluto, di vincere tutto. Ad alto prezzo, certo: non a caso Josè ha preferito cambiare aria da vincitore, anziché affrontare i rischi del logoramento.
Ora occorrono – cosa difficile in un calcio isterico e legato, spesso artificialmente per alimentare il barnum mediatico, all’emotività del momento – calma e sangue freddo.
Prendere atto che qualcosa (supercoppa europea e, con ogni probabilità, il campionato) è compromesso, ma che il resto è comunque alla portata. Certo, occorre recuperare gli assenti, fargli raggiungere un ragionevole livello di forma e di fiducia in se stessi, ridare alla squadra la convinzione che sembra perduta e, molto cinicamente, cominciare a inseguire i risultati. Magari brutti nei modi, ma positivi nella sostanza. In una parola: vincere. Anche le partite che contano poco, ammesso che ne rimangano, o contro avversari di modesto spessore. Bisogna avere il coraggio di fare scelte dolorose e magari esclusioni eccellenti, se qualcuno non risultasse più funzionale agli obbiettivi. Il gioco? Nessuna teoria, solo quello migliore possibile in base agli uomini disponibili. Dimentichiamoci, per una volta, le fanfole dei “credo” calcistici.
Molti, sbagliando, si illudono che la soluzione verrà dalla panacea del mercato di gennaio. Ma la condizione, la convinzione, il gioco, l’integrità fisica non si comprano. Tantomeno la fortuna. Certo, è probabile che Moratti cerchi un difensore di gran livello per sostituire Samuel e magari un fantasista offensivo per dar fosforo a una squadra che non inventa (né inventava sotto Mourinho), ma dubito che il recupero della qualità perduta e della carica agonistica smarrita si possa fare così. La rosa è già ampia e, se intera, già buonissima.
La verità è che, nel calcio di oggi, per competere ad altissimi livelli occorrono i grandissimi giocatori. Sono lontani i tempi in cui un ottimo assemblaggio di buoni mestieranti poteva portarti a risultati importanti. Il Milan è rinato con un’individualità come Ibra. Il Manchester Utd fa fatica da quando non c’è più Ronaldo. E senza Xavi, Messi e Iniesta dubito che il Barcellona sarebbe quello che è. Non si potevano opporre allora Ganz e Branca a Gullit e Van Basten, non si può opporre oggi Santon a Higuain. E se un singolo è sempre in qualche modo sostituibile, non lo sono quattro, cinque, sei campioni insieme.
Ecco perché, rincalzi a parte, sono convinto che il miglior calciomercato rimanga, nel caso interista, quello del pieno recupero degli assenti. Salvo acquistare un esorcista che ci liberi dalle troppe, incombenti macumbe delle rivali invidiose.
Probabilmente la sospensione legata alla trasferta ad Abu Dhabi ci allontanerà ancora di più dal campionato, ma potrebbe restituirci un’Inter rigenerata e di nuovo agguerrita. Oppure distrutta. Ma sempre meglio di quella mezzingola, rattoppata, imballata, sfocata di oggi.