di URANO CUPISTI
Dopo il viaggio da Viareggio in California nel 1977, volando al contrario per cinque giorni via Monaco-Mosca-Pechino-Ulan Bator-Tokyo-Honolulu, poteva mancare un resoconto dedicato alla sola movimentata trasferta? No di sicuro! Quindi buona lettura.
Viaggiare negli anni ’70 non era facile. Anzi, era una vera e propria corsa ad ostacoli. In particolare per coloro che dovevano tener conto del budget a disposizione. Aggiungiamo poi le ristrettezze valutarie dell’epoca, vere e proprie disposizioni-capestro per i viaggiatori incalliti come me.
Per fare un esempio, un italiano poteva espatriare spendendo solo un milione di lire all’anno, comprese le spese fatte con carte di credito. E l’acquisto di valuta estera (dollari Usa, franchi svizzeri, marchi tedeschi, le valute allora “forti” e accettate senza problemi in tutto il mondo) rientrava nel tetto di 1.000.000.
Occorreva pertanto ricoprrere al mai domo ingegno italico, tradizionale miscela di operazioni lecite e di altre un po’ meno.
Abitando in una zona turistica, non mi fu difficile trovare valuta pregiata da amici albergatori e ristoratori. Decisi inoltre di partire da un aeroporto estero, acquistando le tratte aeree sempre all’estero ed evitando così la comunicazione della transazione all’UIC, Ufficio Italiano Cambi.
E così fu anche per il viaggio in California, anno 1977.
Per risparmiare mi affidai all’Aeroflot, la linea aerea allora dell’Unione Sovietica che, con uno sconto del 50%, mi permise di raggiungere San Francisco volando verso est. Il viaggio era piuttosto “articolato” e i biglietti coprivano le seguenti tratte aeree:
– Monaco di Baviera – Mosca con Aeroflot;
– Mosca – Pechino sempre con Aeroflot con scali in Siberia a Novosibirsk e in Mongolia a Ulan Bator;
– Pechino – Hong Kong con la Catay Pacific;
– Hong Kong – Tokio con Jal (Japan Airlines);
– Tokio – San Francisco sempre con Jal con scalo a Honolulu.
In tutto cinque giorni di trasferta, quattro notti, diversi fusi orari, sempre incontro al sole con un totale di 110 ore complessive, senza mai uscire ufficialmente dalle aree internazionali poiché sprovvisto dei visti richiesti.
Ufficialmente, dicevo. Perché ufficiosamente in quattro occasioni, due all’andata e due al ritorno, se pur scortato militarmente, fui costretto ad uscire a Mosca e Pechino per riprendere il bagaglio e rifare il check-in.
Ma andiamo per ordine.
Partenza da Viareggio in treno raggiungendo Milano accompagnato da fido mega zaino con ben legato un sacco a pelo. A Milano cambio di treno per Monaco di Baviera, dove raggiunsi chi mi aveva procurato i voli a basso costo. Accompagnato all’aeroporto, faccio il check-in dello zaino per San Francisco, con tutte le etichette dei voli ben appiccicate e l’assicurazione che non ci sarebbero stati problemi. “Rivedrà il suo bagaglio a destinazione”. Non potei che fidarmi.
Volo tranquillo verso Mosca. Conobbi un italiano molto pratico dei sistemi sovietici. Mi disse di non fidarmi di quanto assicuratomi sul bagaglio: “A Mosca scaricano tutto e controllano anche quelli in transito. Meglio che si informi prima di prendere il volo successivo”. Gli chiesi se poteva aiutarmi al desk info Aeroflot.
Dopo una lunga trattativa, accompagnato dalla sicurezza sovietica, fui condotto nella sala consegna bagagli dove il mio zaino girava solitario sul nastro trasportatore.
Salutato e ringraziato l’amico italiano, e dopo un minuzioso e meticoloso controllo del contenuto, sempre scortato dai due militari, corro a fare di nuovo il check-in per San Francisco. “No problem“, mi ripetono più volte i tovarish sovietici.
Ritornato nell’area dei voli internazionali, via verso l’uscita per Pechino riportata sui tabelloni. Mi accorsi però che molta gente dai tratti somatici mongoli stava percorrendo il lungo corridoio in direzione opposta. E molto celermente. Anzi, troppo. Fermai una ragazzina chiedendo in inglese cosa stesse accadendo e capii che era stata cambiata improvvisamente l’uscita. “It’s normal” mi disse lei, sorridendo.
Montai sull’aereo per ultimo e siccome sugli aerei sovietici chi prima arrivava, prima alloggiava, senza poter scegliere il posto, mi ritrovai in coda vicino alla toilette, con l’opportunità di fare una statistica sull’utilizzo della medesima.
Dire che fu un incubo fino a Novosibirsk è dire poco.
Nel successivo volo per Ulan Bator mi assicurai il posto ben cinque file avanti e in quello verso Pechino mi trovai quasi al portellone anteriore.
Arrivato nella capitale cinese, passai la notte disteso su sedie scomode. Al mattino, considerando quanto accaduto a Mosca, mi avvicinai al desk info della Catay Pacific e chiesi notizie sul mio zaino. Una gentilissima signorina cinese della compagnia di Hong Kong chiamò i doganieri cinesi che mi scortarono nella sala consegna bagagli dove in un angolo trovai il mio bagaglio. Respiro di sollievo. Quindi nuovo controllo, nuovo check-in e consuete rassicurazioni che lo zaino sarebbe arrivato a destinazione. Tenni però con me il sacco a pelo vista l’esperienza cinese.
Ci passai infatti sia la notte nell’aeroporto di Hong Kong, sia quella nell’aeroporto di Tokio.
Finchè finalmente, allo scoccare della centodecima ora di viaggio, stanco, un po’ dolorante ma felice, toccai il suolo americano e rividi il mio zaino.
Al ritorno, la traumatica esperienza dell’andata mi fu utilissima. Avevo imparato tutti i trucchi burocratico-doganali e sapevo come comportarmi. Ad esempio, arrivato a Mosca, dopo il controllo ed imbarco del bagaglio, rientrai nell’area di transito e imboccai subito al contrario il corridoio.Con tre benefici: meno ansia, scelta di un posto migliore e nessuna necessità di contare gli utenti del wc per passare il tempo.