di URANO CUPISTI
1981: raggiunsi la meta dopo 36 ore sui bus della compagnia Morales Moralitos, detta dai peruviani Mortalitos per i celebri incidenti sui passi andini, e dopo 4 di trenino a cremagliera. Ma ne valeva la pena.
Galeotta fu la mostra di un amico fotoreporter allestita a Lucca.
Correva l’anno 1981 e mi accingevo ad andare in Thailandia. Ma l’immagine di una fanciulla peruviana, con le trecce nere e la classica bombetta, i suoi lineamenti, i vestiti molto colorati, mi impressionarono al punto da farmi cambiare idea.
Così Perù fu io partii alla scoperta dei “quechua” (e non inca! “Inca”, appresi, indica solo il capo, il leader del popolo quechua), come loro amano definirsi.
A Lima l’impatto fu deludente. Traffico caotico, niente di diverso da tante altre capitali sudamericane come Bogotà o Quito. Il cielo quasi sempre coperto da un velo grigio donava al paesaggio urbano un’aria malinconica, per non dire deprimente.
Scelsi come base logistica per i mie spostamenti il piccolo quartiere di Barranco, lontano dalla cappa plumbea, e la scelta fu vincente.
Barranco significa “burrone”. Infatti la parte che guarda l’Oceano è a strapiombo sulle scogliere. Scelsi un B&B grazioso, con un patio carino pieno di fiori e ben collegato con il centro storico dai tipici Combi, i mezzi di trasporto di Lima. Conoscere i Combi, quelli piccoli e quelli più grandi, imparare ad usufruirne con disinvoltura, fu facile. Del resto, capii presto che lì o fai come i limeños, cioè gli abitanti di Lima, oppure rimani a piedi.
Barranco mi piacque subito, anche per le sue casette coloniali e l’aria bohémienne che si respirava camminando nelle stradine arrivando alla Plaza de Armas.
C’era un’atmosfera di cambiamento. Stavano costruendo un centro culturale a cui contribuivano molti artisti anche stranieri e il contesto del quartiere era molto “europeo“. Al ritorno delle mie escursioni in centro tornavo quindi ad immergermi con piacere in quell’ambiente un po’ anomalo, inconsueto, a volte irreale e certamente difforme dallo stereotipo del Perù “quechua” che tutti conosciamo.
Il mio principale dubbio era: per gli spostamenti con autobus, treni o macchine private era meglio far da me o affidarmi ad agenzie locali?
Ritenni necessario, anche per non stare a contrattare sui prezzi, incaricare un’agenzia di Barranco consigliatami dal gestore del B&B. Evitai lungaggini, telefonate, perdite di tempo. Devo dire che non ebbi nessuna difficoltà, nè un servizio diverso da quanto stabilito.
Le sorprese furono altre. Ad esempio che la fama di Lima di essere la più grande al mondo, tra le città costruite su un deserto, dove non piove mai, era una balla: una pioggia battente mi accolse infatti nel primo giorno dedicato alla scoperta del centro storico.
L’acqua tuttavia non mi scoraggiò. Ammirai il Palacio de Gobierno che si affaccia su Plaza Mayor (conosciuta anche come Plaza de Armas), la cattedrale segnata dai terremoti, la Chiesa di San Francesco assieme al suo convento, un complesso monumentale che rappresenta uno degli angoli più accoglienti e suggestivi della metropoli, mangiai il ceviche, un piatto squisitoa base di pesce e frutti di mare crudi marinati nel limone. La più incredibile delle mie scoperte fu tuttavia nei giardini di fronte al tribunale dove, seduti sulle panchine, alcuni dattilografi con vecchie macchine da scrivere (anche Olivetti) tenute sulle ginocchia si facevano dettare dagli avvocati documenti e comparse. Folclore e tradizione nella chiassosa Lima.
Quattro giorni più tardi ritenni che fosse il momento di viaggiare alla volta delle memorie più remote del popolo quechua e, dopo dopo 36 ore di autobus della Compagnia Morales Moralitos, detta dai peruviani Mortales Mortalitos per via degli incidenti di cui i mezzi erano puntualmente protagonisti sui passi andini, mi ritrovai a Cuzco. In viaggio fu, inutile dirlo, un’esperienza unica. Compiuta spostandomi su mezzi che definii “simpatici” e superando un dislivello di oltre 3.000 metri. La scelta di effettuare il trasferimento in bus non fu però dettata dalla voglia di autolesionismo gratuito, ma per avere il tempo di assuefarmi all’altitudine.
Fu tutto incredibile. Il Distretto di Punta Hermosa, sull’Oceano, era la prima tappa. A seguire ecco San Vincente de Cañete, con l’inizio della lenta salita a strapiombo nelle desolate valli pre-andine, fino a raggiungere i paesi di Huanavelica, Ayacucho, Abancay. Infine, vivo alla meta. Ero partito la Lima alle 8 del mattino ed arrivai verso le 20 del giorno dopo.
Presi per sei giorni alloggio in una locanda a trecento metri da Plaza de Armas e dalla Cattedrale.
Visita al mondo degli Inca cominciò col parco archeologico di Sacsayhuaman e la sua cittadella fortificata, avvolta nel mistero di quegli degli enormi massi sistemati alla perfezione senza che i capomastri dell’epoca conoscessero la ruota. Impressionante. Poi toccò alla Sacra Valle, con il pittoresco mercatino di Pisac: un insieme di banchetti colorati e chiassosi, sistemati senza alcuna una logica nè geometria, invaso da turbe di turisti pronti ad accaparrarsi prodotti artigianali made in Taiwan in tempi in cui la produzione cinese di massa non si era ancora affacciata al proscenio del consumismo mondiale.
Inevitabile la visita alla cattedrale di Cuzco, col suo intreccio di elementi barocco e rinascimento, testimonianza eloquente della raggiunta supremazia della religione cristiana sulle precedenti culture.
Ma Cuzco significa, soprattutto, Machu Picchu. Meta archeologica giustamente obbligata di qualunque visitatore in terra peruviana.
Decisi di prendere il vertiginoso trenino a cremagliera che sale a zigzagando per scollettare la montagna e scendere poi a picco nella valle del fiume Urubamba fino a Agues Callientes. Un percorsino da quattro ore.
Anche quella però era stata una mia precisa scelta: l’agenzia mi aveva proposto e caldamente consigliato di raggiungere in autobus il paesino di Puroy e di prendere lì il treno in tutta sicurezza, ma vuoi mettere? Sarebbe stato come tagliare via una parte dell’avventura.
Mi avevano anche avvisato di stare attento soprattutto nella parte a zig zag, quando il treno cambia passo e deve fermarsi obbligatoriamente per farlo: è il momento in cui le bande di ragazzini abilissimi salgono a bordo e derubano i turisti.di gioielli, orologi, borse, macchine fotografiche e cineprese. Un rituale purtroppo tollerato dalle forze di polizia. Per fortuna non mi accadde nulla, anche perché ero legato come un salame alla poltrona, senza catenine nè orologio e con tutto il resto blindato nello zainetto.
Arrivai a Agues Callientes al tramonto. Per dormire scelsi un alloggio vicino al terminal dei minibus che trasportano di buon’ora i visitatori fino all’ingresso del Parco archeologico di Machu Picchu.
Alle 5 sveglia, colazione e partenza per ammirare la città illuminata dai primi raggi del sole.
Ed eccomi finalmente lì, ad ammirare anche un altro spettacolo, quello della natura dato dall’imponenza della montagna, l’Huayna Picchu, raggiunto in circa un’ora seguendo un sentiero relativamente facile.
Lì mi fermai a lungo a riflettere. Ripassai con la memoria quanto letto su libri, guide e diari di generazioni di viaggiatori che si erano trovati al cospetto di quella meraviglia. Tutti erano rimasti folgorati – e come dargli torto? – dalla grandiosità del sito archeologico, dai terrazzamenti, dall’intihuatana, dai mirabili sistemi di drenaggio e dalle opere di ingegneria idraulica, dall’orientamento delle costruzioni e dall’ingegnoso sistema di comunicazione creato sfruttando l’eco di cavità scavate ad hoc nella pietra, vere e proprie cabine telefoniche senza fili.
Eppure, lo scenario che portai via con me e che ricorderò per sempre fu la vista dalla sommità dell’Huayana Picchu. Cartoline superbe dal Perù Classico, direbbero oggi i cataloghi delle agenzie turtistiche.
E a distanza di quasi quarant’anni avrebbero ancora ragione.