Con lo sdoganamento dell’infotainment le star della penna, passate da “firme” a personaggi pubblici, tendono oggi a diventare “artisti” a 360°. Fanno trasmissioni, ospitate, teatro. E hanno l’agente come attori e soubrette. Ma sono un esempio?

Non ci eravamo ancora abituati al primo cambio di pelle dei giornalisti – quello da “firma”, che fidelizza i lettori a un giornale, a “transumante”, che invece i lettori se li porta dietro da una testata all’altra, via via che ne cambia una – che già si deve fronteggiarne una seconda. Più complessa e disarmante: quella che, attraverso il transito dall’ambiguo status di “personaggio pubblico”, porta il professionista dell’informazione a essere un uomo di spettacolo. Trasversale quanto si vuole, ma di spettacolo: che oltre a scrivere fa tv, teatro, talk show, ospitate varie. E che per gestire e ottimizzare un tale flusso di impegni ha bisogno, a guisa di un attore o di una soubrette, di un agente.
In termini più aulici e allitterati (perdonate il calembour) si potrebbe descriverlo come la trasmutazione da nomadi della penna a monadi dell’apparire.
E siccome la formula funziona, giustamente c’è anche chi ha fiutato il business nascente e ci si è buttato a pesce. Creando un’agenzia specializzata non solo nel “collocare” i propri assistiti-giornalisti in tv e nei suoi cloni virtuali, ma nell'”ideazione di format comunicativi con la partecipazione dei TestimonialMedia“.
Così si legge nella presentazione dell’agenzia in parola, la Visverbi di Milano.
Della quale ha parlato qualche settimana fa sul suo blog (qui) Alessandro Sicuro, facendosi pure qualche domanda.
Siamo molte oltre la tradizionale definizione di firma: Vittorio Feltri è una firma, Scanzi è un personaggio“, scrive. “In questo senso un’agenzia come VisVerbi sembra cogliere lo spirito del tempo, una trasformazione in atto, una mutazione del ruolo del giornalista: è un sintomo, non la causa di un fenomeno che, forse, ha già fatto egemonia. Provate ad andare in un’aula universitaria e chiedete: chi è il vostro giornalista modello?“.
Io invece preferisco cambiare il senso della domanda e rivolgerla ai colleghi: chi è, se esiste, il vostro modello di giornalista?
Perchè il rischio è che il modello sia qualcosa che non esiste più. E che pertanto tutti i nostri sproloqui, a cominciare dal mio, siano del tutto inutili.
Poi però mi guardo, come accade spesso, alle spalle, e mi accorgo che qualche secolo professionale fa, cioè cronologicamente non più di quindici anni orsono, le agenzie che collocavano i reportage dei freelance di vaglia presso le testate più prestigiose c’erano eccome. E che ognuno di questi era quindi potenzialmente, nel suo piccolo e fatte le debite proporzioni tra mezzi e tempi, un brand commerciabile.
E allora una domanda me la faccio da solo: era troppo presto per fare il salto o abbiamo sbagliato tutto?