Finora almeno, perchè nella “comunicazione” la realtà supera la fantasia. Altro che giornalisti che pagano per lavorare: ora ti chiedono di comprare un kit per partecipare a una conferenza stampa.
Premettendo che tutto costa e che quindi alla fine qualcuno paga sempre, il punto fondamentale rimane: chi paga?
Nell’informazione, in teoria, dovrebbe funzionare che un editore ha un giornale e che i giornalisti lì scriventi sono pagati dall’editore, avendo con ciò garantito il reddito e pure l’indipendenza, indispensabile in chi ha obblighi di imparzialità.
Il sistema comincia a scricchiolare se l’editore li paga poco, perchè la carne è debole e a volte la tentazione di arrotondare con le liberalità del recensito può affacciarsi, soprattutto quanto l’attività del recensito medesimo è ricca assai o magari pure godibile.
Il primo, ma ancora parziale crollo arriva però quando, cessando l’editore di pagare, pur di continuare a scrivere i giornalisti cominciano a lavorare gratis o a tariffe simboliche: inconsapevoli di essersi trasformati in dilettanti, per sopravvivere devono infatti confidare per forza su altre provvidenze o introiti, che spesso coincidono con quelli del recensito di cui sopra.
Il secondo e più distruttivo crollo, tale da rendere l’edificio dell’informazione già inabitabile, si verifica quando, oltre che fornitori di lavoro e quindi di contenuti gratuiti, i giornalisti si trasformano in finanziatori occulti dell’editore medesimo, accollandosi le spese di produzione dei contenuti: aggiornamenti, spostamenti, libri, mezzi, benzina, materiali necessari a produrre i contenuti di cui sopra.
Si penserà così (e lo pensavo anch’io) di aver toccato il fondo, anzi il suolo se si continua la metafora.
E invece no!
Ormai siamo al punto che anche per partecipare come cronista a un evento professionale ti venga chiesto di pagare.
Direte nuovamente: che c’è di strano? Al cinema e a ristorante si paga, i prodotti da recensire si comprano, eccetera.
Certo. E se le cose stanno così, di strano non c’è nulla.
A due fondamentali condizioni, però: primo, che la spesa ti venga rimborsata dal committente, cioè l’editore, o, secondo, che l’acquisto sia funzionale alla scrittura di un articolo o sia una spesa professionale legata all’aggiornamento del bagaglio di conoscenze utili o necessarie per lavorare.
Lo strano entra in gioco quando c’è qualcuno che ti invita (nb: ti invita lui, non l’hai chiesto te, oltretutto) come giornalista a un evento, a una presentazione, a una conferenza stampa. Insomma a qualcosa dove ti viene chiesto di andare, ascoltare, capire, fare domande e poi solo eventualmente – eventualmente nel senso che la decisione può non dipendere solo da te, ma anche da chi nel lavoro ti è gerarchicamente superiore – scrivere articoli.
Mai sentito che esistano conferenze stampa a pagamento?
Io no.
Ma supponiamo che esistano. Visto con l’ottica di chi organizza, fissare una quota di ingresso può anche essere un modo per disincentivare l’accesso in massa di scroccatori e sedicenti, introducendo un “ticket motivazionale” che sarà pagato volentieri solo da chi ha una necessità professionale o un interesse vero all’argomento.
Pure in questo caso, però, da un obbligo non si esce: a farsi carico della spesa dev’essere comunque il committente, sennò che senso ha che io spenda per assistere a qualcosa che nemmeno so se mi interesserà e potrò sfruttare per il mio lavoro?
E invece, tatànn! Ecco la sorpresa.
Ricevo un pomposo invito giornalistico a un’altrettanto pomposa presentazione per prendere parte alla quale mi si chiede di acquistare un “kit”, peraltro a svariate decide di euro.
In pratica è come se ti convocassero gratis, ma poi devi mettere dieci euro per farti aprire il portone, noleggiare (da loro, si capisce) la sedia per sederti e pagare di tasca tua (e sempre a loro) la cartella stampa con la documentazione indispensabile per capire di che si tratta e fare il tuo lavoro.
Giuro, è tutto vero. Mi è successo giorni fa.
Il problema è che, se ormai funziona così, hanno ragione loro. E il rischio è che, se eccepisci qualcosa, ci sia un coro di hobbisti indignati e indemoniati che, additandoti, ti urla con disprezzo: “Professionista!“.