“Tosaerba naturale” per pubbliche amministrazioni (e non) e fonte integrativa del reddito nelle aree marginali, nonchè strumento di tutela del paesaggio e della biodiversità. L’allevamento caprino da fibra è un’opportunità “multifunzionale”. Ma spesso la burocrazia non capisce e non l’aiuta. Se n’è parlato giorni fa a Radda in Chianti.
Fosse stato per me, Nora Kravis – la pioniera chiantigiano/americana dell’allevamento delle capre cashmere in Italia – avrebbe sfondato subito una porta aperta. Non solo per la bontà dell’idea imprenditoriale e il contenuto innovativo della proposta, ma anche per il coraggio, la passione, la tenacia.
Non è facile inseguire per trent’anni un progetto che diventa un’idea fissa e anche uno stile di vita e poi vedere il mondo davanti a sè dividersi in due: da un lato quello dei seguaci (pochi), folgorati sulla via di Damasco da un’intuizione che potrebbe rappresentare l’uovo di Colombo per tanta della campagna marginale italiana, e dall’altro quello degli scettici o dei burocrati (spesso le stesse persone), che per una forma combinata di pigrizia mentale e di fatalismo ministeriale impediscono di fatto la diffusione di una tecnica colturale (perchè alla fine di questo di tratta) dotata di tutti i ragionevoli requisiti per essere redditizia, sostenibile, compatibile con altre forme di gestione dell’azienda agricola.
Sullo sfondo, il muro di gomma culturale che sovente recinta, soffocandola, la campagna e il suo mondo.
Sto parlando dell’allevamento allo stato brado di capre di razza cashmere, al quale giorni fa a Radda in Chianti è stato dedicato l’interessante seminario (e di cui trovate qui trovate un’ampia sintesi tecnica).
Perchè me ne occupo in questa sede, qualcuno si chiederà. E perchè razza cashmere anzichè qualsiasi razza caprina, visto che tutti questi simpatici animali hanno la medesima virtù (o vizio, secondo i punti di vista), cioè brucare ogni cosa capiti alla loro portata, compresi i proverbiali gerani nel giardino del vicino.
La risposta è semplice: perchè questa razza non è finalizzata alla produzione di carne o di latte, con quello che ciò comporta tecnicamente e sanitariamente in termini di mungitura o di macellazione, ma di fibra. Di pregiatissima lana cashmere, insomma. La fibra è il prodotto. E il ricavo dell’allevamento proviene dalla vendita del prodotto medesimo. Che non si ottiene tosando le capre, ma pettinandole e separando poi la lana dagli scarti.
Tutto abbastanza facile: alto valore aggiunto, una sola “pettinatura” annuale di ogni capo. Per il resto si tratta di un animale rustico, geneticamente avvezzo, vista la provenienza, a sopravvivere in ogni clima e in ogni contesto, relativamente docile e onnivoro. Cioè capace di mangiare qualunque vegetale, dall’erba ai cespugli spinosi, dalle infestanti alle malerbe, dai rovi alle chiome degli alberi.
Se ben gestita (e arginata), la capra cahsmere è dunque una sorta di “diserbante” naturale e non inquinante, capace non solo di riportare a nudo i suoli abbandonati e invasi dalla macchia, ma di fungere da efficacissimo tosaerba in parchi pubblichi, terrapieni, fianchi di rampe stradali e ovunque ci sia necessità di tenere bassa la vegetazione spontanea. E’ in grado di ripulire il sottobosco, di divorare gli scarti delle potature (ramaglia di vite e olivo, ad esempio). Non necessita di nulla o quasi, tranne che una tettoia aperta sui lati, acqua, difesa e sorveglianza.
Ma è qui che casca l’asino ( e che la capra crepa).
Cosa ostacola infatti la diffusione di questa forma virtuosa, poco costosa, assolutamente biologica e perfino redditizia di allevamento?
Molte cose.
La prima è la burocrazia: far pascolare le capre liberamente è infatti proibito. Occorre chiedere un permesso alla provincia (con gli oneri, i tempi, le carte e le incognite interpretative che ciò comporta), perchè si teme, a volte a ragione e a volte meno, che venga danneggiata o distrutta la flora.
La seconda è una conseguenza della prima: la capra è un animale agile e intraprendente, che va contenuto e arginato con recinti (piuttosto costosi da realizzare e da mantenere) sottoposti a regolare, quotidiano controllo.
La terza sono i predatori: i lupi e i cani inselvatichiti sono i peggiori nemici delle nostre caprette e gli attacchi di norma provocano non solo la perdita di un capo o due, ma ferimenti, aborti, traumi a vaste parti del gregge.
La quarta sono gli interessi economici: la reintroduzione, tra le comuni pratiche agricole, di strumenti naturali di controllo della vegetazione non può essere ben vista da chi produce attrezzi meccanici o prodotti chimici aventi il medesimo scopo.
La quinta è la sommatoria delle quattro ragioni precedenti: una diffidenza culturale e l’affermazione di una ruralità che sotto ogni punto di vista – dalla burocrazia alla normativa, dall’assetto fondiario alle pratiche colturali – sembrano di fatto divenute incompatibili con una forma di allevamento a brado naturale e spontanea come questa.
La sesta l’ho tenuta per ultima perchè è la più stramba, surreale, perfino grottesca ed eppure tragicamente reale. Secondo la legge vigente, infatti, la fibra di cashmere non è un prodotto agricolo. Fino a ieri era considerata addirittura un rifiuto animale, con oneri di stoccaggio e smaltimento complicatissimi e costosissimi. Oggi, per fortuna, è stata “declassata” a sottoprodotto e quindi il regime si è un po’ allentato. Ma resta il fatto che, per lo stato, chi alleva capre cashmere non è un agricoltore e quindi non può godere, sotto nessun aspetto, dello status per ciò previsto. In altre parole, non essendo finalizzata alla produzione di derrate per l’alimentazione umana o animale, l’attività non è considerata agricola. Non può pertanto accedere ai regimi fiscali, alle agevolazioni, ai contributi e neppure agli uffici previsti per l’agricoltura. Non può chiedere i danni subiti per gli attacchi subiti dai predatori.
Assurdo? In parte, sì. E in parte sintomo dell’incapacità e della lentezza con cui l’ordinamento tende a recepire ciò che, più che nuovo (difficile definire nuovo l’allevamento a brado, una delle forme di agricoltura più antiche che esistano) appare “diverso” dai canoni ordinari.
Insomma, se con sopra la capra (cashmere) il campo potrebbe campare meglio, con la capra (cashmere) nel campo l’allevatore può anche crepare.
Anzi no, perchè non esiste proprio.
Ma all’orizzonte ci sono prospettive interessanti. E noi ne parleremo presto.