LIBRI&VINI/2. Un romanzo che da bucolico trascolora in gotico e un vino dalle apparenze semplici che ascende alla complessità. Ecco l’esito della delibazione parallela tra “La fune” di Aus dem Siepen e il Rosa Rosae 2012 di Guerrieri Rizzardi.
Può un rosato essere vino da meditazione, o almeno da lettura, da lento sorseggiamento, da soppesatura intellettuale, nella stagione in cui fa caldo e i caminetti sono, di norma, spenti?
Sì, può. Se ha una struttura sufficiente a sostenere il peso del pensiero e sentori capaci di sopravvivere alla vividezza di quelli evocati dalla letteratura.
Era un abbinamento oggettivamente thrilling quello che mi era venuto di provare affiancando il nuovo romanzo di Stefan Aus dem Siepen, “La fune“, alla nuova annata (2012) di uno dei miei rosè preferiti, il Rosa Rosae di Guerrieri Rizzardi: un Rosato Veronese Igp tirato in appena 3mila bottiglie) prodotto nella zona di Bardolino con uve Corvina, Rondinella e la rara Marcobona.
Eppure le cose si sono presto allineate in un connubio rivelatosi azzeccato: di qua una storia allegorica e vagamente inquietante, con ampie sfumature chiaroscurali, di là un vino assai godibile ed ampio, ma che non ammette distrazioni e anzi – con la sua profondità, la spiccata sapidità, le note di spezie, un corpo ben definito e un fruttato robusto, deciso, mai stucchevole – richiama in chi beve un’attenzione pari a quella pretesa dal libro.
C’é un placido villaggio rurale collocato in un’epoca indefinita (io l’ho immaginato settecentesco), bordato da prati forse alpini e circondato dal verde cupo del bosco. Poca gente tranquilla, che vive serena, anche se magari non felice, lontana da tutto.
Ai margini del prato però, a sorpresa, un giorno appare una fune.
Che, a tirarla, si rivela addentrarsi misteriosamente tra gli alberi, senza fine. Sempre di più, fino al punto in cui l’ombra delle chiome diventa buio e l’oscurità si fonde con l’enigma stesso di quella corda sinuosa che solca la foresta, le distese di felci, le colline.
I contadini del borgo prima ci scherzano su, poi cominciano a farsi delle domande. E piano piano si lasciano avvincere dall’ossessione dell’inseguimento di quella sorta di filo di Arianna al contrario. Cadendo così uno ad uno, vittime inconsapevoli della propria ignoranza e dei propri complessi di inferiorità, e dimenticando le case, le donne, il resto. I quali a loro volta gli si dissolvono alle spalle senza che gli uomini se ne accorgano. Finchè, accecati da un’ansia divenuta incontrollabile, penetreranno in quella metaforica selva fino a smarrire la strada, se stessi e il senso dei luoghi, sviati dall’imprevedibilità dell’ignoto.
E’ davvero un piccolo capolavoro di equilibrio questo romanzo (Neri Pozza, 2013, 157 pagine, 14,5 euro), terza fatica del cinquantenne diplomatico tedesco Stefan aus dem Siepen. Un lungo racconto che danza senza incertezze sul chiaroscuro delle atmosfere letterarie, giocando con naturalezza molto più sulle impressioni che sulle espressioni e riuscendo a mantenere alta una tensione narrativa mai inquinata dalle facili leve della suspence e del noir.
Ambizioni, sospetti, ingenuità, inadeguatezza, solidarietà vera e apparente, debolezze, tracotanze, invidie, inimicizie, paura, viltà e inconsapevolezza dei propri limiti si intrecciano così nell’avventura del gruppo di compaesani in quella che, giustamente, lo strillo di copertina descrive come “una parabola sull’ossessione umana“.
Alla fine del percorso, il libro e il vino sembrano così due gomitoli che si dipanano specularmente: l’uno aggrovigliandosi nel destino drammatico dei protagonisti, l’altro distendendosi bicchiere dopo bicchiere in una fisionomia chiara, lineare, asciutta, adulta. Un bere insomma niente affatto complementare, piacevolmente aromatico e incisivo.
Un solo, piccolo e spero rimediabile rimpianto: non aver messo da parte una bottiglia di Rosa Rosae per farla invecchiare qualche annetto in più. Sono certo che mi avrebbe dato delle sorprese. Non gotiche, però.