Fa discutere l’articolo del collega Stefano Casertano sul giornale online Linkiesta (qui): in Germania, dice lui, si diventa giornalisti in venti minuti, presentando qualche copia del proprio pubblicato. Il che, a suo parere, dimostrerebbe la bontà del sistema teutonico e la natura addirittura “fascista” del nostro. Ma siamo sicuri?
Il vero problema, nell’attualissima discussione sulla paventata abolizione dell’elenco dei pubblicisti e sulla connessa questione dell’abolizione dell’Ordine dei Giornalisti, nonchè sulle modalità di accesso al medesimo, è che spesso l’argomento è affrontato in modo ideologico e senza nozione di causa.
L’apriorismo è, sia nel pro che nel contro, un pessimo consigliere. Soprattutto quando l’opinione pubblica è in preda a ondate emotive che, nell’esasperare i toni, mascherano anche gli aspetti tecnici, legali, specialistici che sono i reali fondamenti della materia.
Non conosco personalmente Stefano Casertano, un collega (pubblicista, credo, poichè dichiara di lavorare all’università di Berlino come professore aggregato in politica internazionale) che sul giornale on line Linkiesta ha scritto giorni fa un articolo intitolato “In Germania bastano venti minuti per diventare giornalista professionista“. Ma non ho motivo di credere che Casertano sia disinformato sull’argomento, come invece evidentemente sono molti dei commentatori intervenuti in rete. Quindi attribuisco la sua posizione ad una convizione ben ponderata.
Che rispetto, ma non condivido affatto. Sia per il suo assunto tendenzialmente demagogico, sia perchè, a mio parere, confonde tra loro due questioni in realtà nettamente separate.
Mi spiego.
“Chi mi consente di scrivere le mie quattro parole su questo giornale – chiosa a commento del progetto governativo di abolizione dei pubblicisti – mi ha comunicato con tono consolatorio: ‘toccherà farti diventare professionista, tranquillo’. Ho subito rifiutato. Non sono voluto entrare nella casta accademica italiana, figuriamoci se accetto di entrare in un ordine statalista per esprimere il libero diritto di scrivere. O meglio, accademico lo sono diventato, ma in Germania. Forse qui diventerò anche giornalista professionista: basta qualche fotocopia di articoli pubblicati, una dichiarazione della redazione, 50 euro e una ventina di minuti“.
Già il vietissimo ricorso all’espressione “casta” mi disturba un po’, segno evidente che Casertano ha un’idea abbastanza vaga e molto prevenuta della realtà odierna della professione. Altro che casta: se vivesse questo lavoro dal di dentro lo saprebbe benissimo. Ma non a caso fa il professore. E, scrivendo, dice anche di esercitare un “libero diritto”.
Anche su questo dissento. Non sul diritto, ci mancherebbe. Fare il giornalista però, o meglio essere giornalista, non significa semplicemente esprimere le proprie idee attraverso la scrittura (su un giornale o meno), cosa lecitissima a chiunque. Significa viceversa farlo per lavoro, ovvero all’interno di un insieme di norme e di una catena di responsabilità specifiche che attengono alla sfera professionale e sono dettate dalla legge 69 del 1963 che ha istituito, appunto, l’OdG.
Sia chiaro: si può condividere o meno la bontà e la necessità dell’esistenza degli ordini, non è questo il punto. Il punto – fondamentale, però – è casomai che scrivere (per diletto, passione, hobby) è una cosa, scrivere articoli per mestiere è un’altra, scriverli per secondo lavoro (cioè da pubblicisti, cioè da persone che, pur vivendo di altri redditi, sono giornalisti a tutti gli effetti e quindi legati alla normativa di cui sopra, prevista per la categoria: deontologia, catena di controllo, equi compensi, iscrizione all’albo, etc) un’altra ancora.
“Perché tappare la bocca a chi scrive – continua poi Casertano – è un attentato contro la libertà di lavorare e di esprimere le proprie idee, e di essere pagato per farlo. E’ un segnale latente di dittatura democratica, indice di arretratezza e viltà professionale. Caro prof. Monti, non dimentichi che le corporazioni sono robaccia da fascisti, e qualsiasi atto teso al loro rafforzamento è, tecnicamente, un atto fascista. Sta chiudendo le porte alla rivoluzione del giornalismo digitale, al citizen journalism, al blogging. Peraltro, non servirà a nulla: basterà varcare il confine per qualche minuto – o qualche anno, se continua così“.
A parte il rituale agitamento dello spettro dell’Ordine “fascista” (che noia: spesso viene da pensare che sia una banale questione di nome e che cambiando sostantivo il problema formale sarebbe risolto), mi pare fuorviante anche l’appello a certe icone tanto predilette da certa intellighenzia: citizen journalism, blogging eccetera.
Nessuno nega l’importanza che l’avvento del web e l’opportunità non solo di far circolare rapidamente le notizie, ma anche la possibilità per chiunque di accedervi (la rete e i blog sono tuttavia fonti, non organi di informazione) rappresenti un’enorme novità, destinata ad avere grande impatto sulla società. E’ però proprio dalla ciclopica mole di notizie, dalla loro velocità e dalla facilità nel produrle e nel diffonderle che il ruolo del giornalista – anzi, la necessità della sua professionalità – esce rafforzato. In un mondo globale, intercorrelato e connesso, la capacità di gestire le informazioni, verificarle, soppesarle, filtrarle, cernirle non può essere affidato, se non si vuole correre l’altissimo rischio di un’informazione distorta, manipolata e propagandistica, a soggetti che non ne abbiano da un lato la capacità professionale e dall’altro una responsabilità soggetta a un controllo organizzato e super partes, a garanzia di indipendenza.
Ciò a cui è appunto demandato oggi, in Italia, l’OdG.
Il fatto che, in alcuni paesi esteri, un Ordine dei giornalisti non ci sia (ma esistono organismi spesso analoghi, che sanciscono e regolamentano l’appartenenza alla categoria, cosa che i militanti antiordine fingono di ignorare) o che sia irrisorio accedervi, non significa nè che il problema non si ponga, nè che lì le cose vadano meglio che da noi.
Personalmente, sono anzi convinto del contrario.
E non perchè abbia alcun interesse a difendere una “casta” di cui, come sanno i lettori di questo blog, sono un critico severissimo. Solo che buttare via il bambino con l’acqua sporca mi pare un grave errore. E credere che una “liberalizzazione”, consistente nell’abbattimento di qualsiasi soglia di accesso alla professione, sia un grande passo avanti per la libertà di informazione, altrettanto. Così come non ho mai creduto che il 18 politico facesse migliore l’università o fosse un’espressione più alta e diretta dell’esercizio del diritto allo studio.