LIBRI LETTI D’ESTATE: “L’altra riva del Bosforo“, di Theresa Révay. L’amore di una nobile ottomana per un avventuriero tedesco fa da sfondo, tra riflessi di inquietante attualità, al convulso quinquennio compreso tra la rivoluzione russa e quella turca.

Ci sono libri che involontariamente ti cambiano la prospettiva da cui osservi certe cose.
E questo accade spesso per caso, in virtù di un intreccio di coincidenze a cui non sai dare un senso compiuto. Le quali tendono così a sembrarti, appunto, pura casualità. Ciò è tanto più vero quanto, poi, più numerose sono le coincidenze che tra quelle pagine vanno a convergere.
L’altra riva del Bosforo” di Theresa Révay (Superbeat, 416 pagine, 12 euro e 90) appartiene a tale categoria.
In altri momenti, lo ammetto, l’avrei definito un dignitoso fumettone sentimentale, senza dubbio ben scritto e anche maliziosamente intriso d’Oriente, gradevole, a tratti perfino avvincente, ma nulla di più.
Letto adesso, invece, durante una tormentata estate di esodi e di Isis, di geografie mediorientali rimesse in discussione, di tensioni politiche turche e di crisi economiche greche, di ambiguità europee, di dittatori traballanti, di scempio di monumenti e di incendi di storiche città, devo ammettere che il romanzo acquisisce una luce più intensa. E soprattutto fa venire voglia di scavare, approfondire, ripensare pieghe della storia rimaste a lungo ai margini tanto del nostro interesse quanto della nostra conoscenza. Di riannodare dei fili del passato lasciati distrattamente pendenti.
Il tutto assommato poi ad una sequenza singolare, quasi palingenetica, di saldature cronologiche altrettanto suggestive, per una vicenda ambientata un secolo fa in un periodo in cui due mondi, quello ottocentesco e quello novecentesco, si scontravano, con l’inevitabile sequela di scosse, compromessi, tragedie, assestamenti, albe e tramonti.
Così, alla fine, ciò che resta più impresso non è la vicenda sentimentale della donna ottomana e dell’ avventuriero tedesco presi nello schiacciasassi dei rivolgimenti provocati dalla dissoluzione dell’impero del padiscià e dalla nascita dello stato turco, ma la bolgia infernale di storia che ruota loro intorno. Piena di inquietanti venature di attualità: gli allarmi umanitari per le masse dei profughi russi in fuga dai bolscevichi che premono ai confini, il doppiogiochismo diplomatico delle grandi potenze europee (e della piccola potenza italiana) su uno scacchiere non ancora petrolifero e già militarmente strategico, il genocidio degli Armeni, le stragi greche e le controstragi vendicatorie turche, la laicizzazione dello stato e dei costumi, Mustafa Kemal e Mohamed VI, gli attentati, i separatismi, le nazioni dimezzate dal righello della geopolitica.
Ognuno di questi elementi, rappresentato nel romanzo da un personaggio, va a tessere una storia di cui l’amore romantico di Leyla e Hans vorrebbe essere l’asse portante, finendo invece per fare da malinconica comparsa, non più dell’eunuco Ali Aga e della sua padrona, l’ex odalisca Gulbahar.
E forse, almeno dal mio punto di vista, è meglio così.