A dieci anni dall’adozione del trattato internazionale con il quale (finora sono 32 i paesi aderenti, mentre la Russia ha annunciato la sua probabile ratifica) il Consiglio d’Europa promuove la protezione, la gestione, la pianificazione e la cooperazione in materia di paesaggi europei, festeggiata nei giorni scorsi a Firenze, cresce il rischio di una progressiva divaricazione tra la teoria e le applicazioni pratiche dei principi solennemente enunciati. Ecco alcuni interrogativi in attesa di risposta.
Avremmo voluto chiederlo (e se ci capita lo chiederemo) a qualcuno dei relatori, ma nell’ambaradan non è stato possibile. La domanda era questa: il decimo anniversario dell’adozione, da parte del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa (che è cosa diversa dall’UE!), della Convenzione Europea del Paesaggio, solennemente festeggiata ieri e l’altroieri a Palazzo Vecchio a Firenze, che cosa rappresenta: lo stato dell’arte dopo un decennio di attività, un segnale di vitalità dopo due lustri di immobilità o un atto di resa camuffato da ricorrenza?
Lo so, la domanda è provocatoria. Ma il dubbio viene. Viene per due ragioni. La prima è che la tutela del paesaggio è cosa complessa, interculturale, interdisciplinare, infinitamente lontana dalla nozione cartolinesca che la gente comune ci associa, onusta di problematiche e implicazioni (sociali, economiche, etiche, ecologiche, ambientali) nemmeno immaginabili dall’opinione pubblica. La seconda è che, pericolosamente, col tempo il termine stesso di paesaggio ha via via assunto, sotto la spinta della vulgata corrente, significati equivoci – banalizzanti, retorici e politicamente corretti, per dirla tutta – simili a quelli che negli anni ’60 – altra epoca, ma medesima temperie – assunse ad esempio la parola “parco”: una via di mezzo, cioè, tra lo stucchevole e il vincolistico, tra il moralistico e il didascalico. “Mera nostalgia che si autocontempla”, come ha acutamente chiosato qualcuno.
Con l’aggiunta però, nel caso del paesaggio, di un’ulteriore implicazione dal sapore vagamente ideologico, mutuata dai luoghi comuni oggi di moda: “…il paesaggio – si è sentito ripetere a ogni piè sospinto nel corso delle relazioni di ieri – dev’essere democratico e partecipato”. Democratico? Partecipato? Ma che c’entra?
Qualcuno ha provato a spiegarlo: la consapevolezza dell’importanza e della funzione del paesaggio come cornice non solo ambientale, ma socioculturale nel quale si vive, renderebbe più evidente il rapporto di “vicinato” tra l’individuo e tale contesto. E ciò stimolerebbe la partecipazione.
Vabbè, mettiamola così. Se si tratta dell’ennesima favoletta da raccontare al volgo per sensibilizzarlo alla questione, vada pure.
A noi però le questioni sembrano altre.
Ad esempio quelle poste in apertura di questo post.
1) Siamo certi che l’espressione “paesaggio” non stia già rischiando di restare (o non sia già) ingessata e di perdere la carica dinamica indispensabile per trasmettere la nozione di mutevolezza implicita nel concetto stesso (e quindi l’esigenza primaria della conservazione e della tutela)?
2) Entro quali limiti ha senso parlare, come abusatamente si fa, di “paesaggio sostenibile”, facendo così del paesaggio l’ennesima appendice dell’apriorismo legato alla logica della crescita e dello sviluppo indefiniti?
3) E quanto invece il contrappeso paesaggistico e ambientale potrebbe fungere da elemento calmieratore di quella logica, costituendone una sorta di freno in chiave almeno potenzialmente “decrescente”?
4) E’ lecito parlare, accanto al paesaggio comunemente inteso, di un paesaggio secondo, termine con il quale indicare contesti tanto degradati da essere irreversibili, il cui ripristino risulterebbe cioè tanto difficile e costoso da suggerire piuttosto un loro congelamento e una loro integrazione con il buono superstite? E sarebbe questa, nel caso, un’integrazione da compiersi come?
5) Infine: fino a che punto è possibile difendersi non dagli abusi tecnicamente intesi, compiuti cioè in violazione di norme cogenti o di principi generali condivisi, ma da quelli di origine squisitamente “culturale”. Da quelli cioè che, nel formale rispetto delle regole e del consenso, promanano dal ferale abbraccio, nel nome del cattivo gusto, di una cattiva committenza, di una cattiva progettazione e di una cattiva (o ottusa, o ignorante) amministrazione?
Indagheremo tra gli addetti ai lavori e cercheremo di dare delle risposte in un prossimo post.