La contraddizione tra il modello del mangificio turistico e la difesa della “tipicità” dei prodotti nel nome di un’origine talvolta (visti i volumi ) presunta genera un cortocircuito che forse dovrebbe indurre a un cambio di strategia a 180°.

 

Parafrasando una celebre massima, si può dire che tre notizie fanno una prova: la prova che va totalmente ripensata non solo la strategia, ma probabilmente il modo stesso di concepire, nel mondo irreversibile del consumo globalizzato, la difesa di nomi, marchi, prodotti, identità culturali. Evitando battaglie di retroguardia provocate da un abito mentale che, da noi stessi alimentato, ci si sta ritorcendo contro.

La notizia numero uno l’ha data, sul Corriere Fiorentino, l’ottimo Mario Lancisi. E’ quella che potremmo chiamare del “paradosso di Bolgheri“. E che è l’emblema perfetto del diallelo in cui ci siamo perduti inseguendo il moto perpetuo del turismo edule: nel già ameno borgo toscano amato da Carducci oggi gli abitanti si sono ridotti a venti, ma gli esercizi commerciali – tra paninai, salumai, prodottitipiciai, giubbai, artigianaisono trenta. Uno ogni abitante e mezzo. Credo non ci sia bisogno di commenti: una già marginale, a volte per questo spettrale e sempre per questo piccola ma viva comunità si è trasformata in un non luogo, in un mall turistico diffuso, vetrina da shopping che si desertifica quando si abbassano i bandoni. Intendiamoci, va benissimo (e noi ne siamo lieti) per il commercio. Ma dietro la vetrina, niente. Eppure non c’è paesello toscano che non invidi e non sogni di emulare il fenomeno bolgherese, ennesimo clone del mangificio fiorentino.

La notizia numero due ce la dà l’ufficio stampa della regione Toscana (e non solo): è il “caso Bolgarè“.

La vicepresidente e assessore all’agroalimentare Stefania Saccardi – si legge in una nota – commenta con soddisfazione la sentenza con cui il Tribunale dell’Unione Europea si è espresso contro il marchio “Bolgaré” che un’azienda vinicola della Bulgaria aveva depositato presso l’Ufficio marchi europeo, l’Euipo, nella classe dei prodotti alcolici. E’ la sentenza che ci aspettavamo – dice la Saccardi – perché Bolgheri non è un gioco di parole, è un territorio irripetibile che esiste solamente in quel nome, lo stesso nome di un prodotto che solo questa terra ci offre”. Il Tribunale comunitario ha respinto l’impugnativa dei bulgari nei confronti del Consorzio Bolgheri doc (che associa 66 aziende vinicole del territorio) ritenendola manifestamente infondata: il marchio “Bolgaré” è idoneo a evocare, nella mente del pubblico di riferimento, la Dop “Bolgheri” e per questo non può essere accettato. “Questa decisione – aggiunge Saccardi – conferma il ‘made in Tuscany’ non rappresenta una mera questione di difesa di cortile, è ben altro e ben oltre maldestri tentativi di ingannare qualche sprovveduto. La sentenza segna un precedente fondamentale per la protezione delle Doc e delle Dop/Igp toscane e italiane”.

Anche di questo, se restiamo nell’ottica corrente, ovviamente ci rallegriamo.

Sullo sfondo, un po’ beffarda, sta però la terza notizia. Quella dei giorni scorsi, legata sia alla decisione del Governo di candidare ufficialmente la cucina italiana a entrare nel patrimonio dell’Unesco, sia alle polemiche di dissenso che ne sono seguite e alle rivendicazioni di vario segno che la stessa ha suscitato, tipo: “la carbonara l’hanno inventata gli americani” o “perchè la nostra cucina sì e quella inglese no?“. Se dovessi rispondere io, direi innanzitutto che trovo ridicola e stucchevole questa smania di uneschizzare tutto nel nome del marketing, ma anche che, andando nel pratico, la differenza è evidente: la nostra cucina è universalmente riconosciuta come buonissima, quella inglese un po’ meno. Diciamo vittoria per manifesta superiorità.

Ma, in sintesi estrema, mi pare che la conclusione da trarre sia un’altra: nel nome di un borgo spopolato, divenuto, grazie alla meritoria popolarità planetaria ottenuta dal suo vino, un hub del turismo di massa (altrimenti non sarebbe in grado di sostenere l’esistenza di trenta attività commerciali) nasce una controversia comunitaria che potrebbe moltiplicarsi su scala mondiale (il pianeta anzi ne è già pieno) perchè per malizia, ignoranza o vile commercio ci sono altre zone del globo che hanno interesse, per i loro prodotti, a rivendicare paternità alternative nel nome dell’italian (ma in teoria anche french, o american, o brazilian, etc.) sounding.

Ora, riflettiamoci un attimo. Da un lato le sacrosante esigenze commerciali di chi nel tempo si è costruito produzioni di qualità, marchi, tradizioni, reputazione e mercato e ne chiede la difesa. Dall’altro chi, giocando con termini e assonanze, cerca di fare concorrenza a volte sleale (e perciò va condannato) e a volte solo furbesca (e qui il confine è più sottile: non conosco i dettagli ma, ad esempio, una cosa è se il vino Bolgarè lo fanno in Winsconsin, un’altra è se lo fanno in Bulgaria, nome che con Bulgarè qualche affinità fonetica e geografica ce l’ha). Nel mezzo c’è un enorme mercato che vorrebbe di qua mantenere le strette tutele dovute al prodotto artigianale o di qualità certificata, di là espandere però i numeri e i volumi a livello industriale. Il che è una palese contraddizione, come la fola del lardo di Colonnata commercializzato nei cinque continenti.

Mi chiedo e vi chiedo: si tratta di un modello di difesa sostenibile, come oggi va di moda dire? Ossia, regge il rapporto costi-benefici, sempre ammesso che il meccanismo legale continui a funzionare visto l’assalto a cui è soggetto e gli argomenti non sempre peregrini delle controparti?

Il punto non è, come sembra, se sia tollerabile che a Rome (cittadina della Georgia, USA, con 36mila abitanti) costruiscano una copia in scala 1:1 del Colosseo, e nemmeno se ci sia gente – perchè insensibile alla differenza, poco percepibile a un occhio incallido, tra l’originale e la copia – disposta ad andare a vederlo rinunciando al viaggio a Roma quella vera. Ci vadano pure, alla Rome ameregana: la città eterna avrà sempre e comunque milioni di visitatori, anche facendo a meno di chi si accontenta del Colosseo di cartapesta. Il punto è, invece, che esiste il mercato di chi apprezza il Parmesan, o il Chianti O’ Sole Mio, o l’extravergine “Nobil Drupa” (visto coi miei occhi: la reclame dice che quest’olio è finissimo perchè frutto non della spremitura, ma dell’incisione una ad una delle olive, dalle quali l’olio sgorga spontaneamente) o i monumenti farlocchi.

In questi casi non è meglio rinunciare a difendersi, lasciare cioè che la gente consumi le porcherie che trova buone o convenienti, e riservare al consumatore avveduto, che oltre al gusto sa riconoscere anche il valore economico del prodotto, quella piccola porzione di qualità vera, capace ovviamente, per i suoi scarsi volumi, di spuntare anche prezzi assai remunerativi per il produttore?

La mia è una provocazione, ovviamente.

Ma mica tanto.