57, per la precisione: tanti hanno sottoscritto (qui) la rilevazione lanciata il 1 febbraio. E’ un dato che fa pensare. E suscita parecchie domande. La prima: quanti si nascondono? La seconda: perchè? La terza: perchè molti simulano? La quarta: che fare?
Fino a quando i giornalisti freelance italiani, quelli veri (cioè professionalmente tali, questi), esistevano in un numero sufficiente da costituire una categoria professionale e un mercato relativamente strutturato, sebbene considerato inesistente dall’establishment sindacale (e pertanto ignorato sotto il profilo formale e retributivo), tra noi del giro circolava un ritornello autocommiseratorio: “In Usa i freelance vincono i Pulitzer, in Italia fanno le pulizie“.
Altri tempi. Allora ci si conosceva e ci si “pesava”. Cosa oggi impossibile perchè, a giudicare da quello che si sente e si legge in giro, l’Italia è piena di “giornalisti freelance“. Tutti o quasi con redditi uguali o più spesso inferiori a quelli di un collaboratore domestico a ore. Il termine pare infatti diventato eufemistico: proprio come chi, vergognandosi (ma perchè?) di dire che fa la segretaria, si autodefinisce “assistente”, così qualsiasi giornalista senza un contratto fisso si autodefinisce per default “freelance”. Come se fare il collaboratore o il cococo fosse una deminutio capitis.
E il bello è che le istituzioni (Odg, Fnsi) e i loro rappresentanti assecondano questa sciocchezza concettuale e terminologica, contribuendo a convincere i colleghi che il termine sia sinonimo di “autonomo” o di “precario“.
Da qui la mia provocatoria idea del censimento. Che si è chiuso il 31/3 e ha dato risultati interessantissimi. Hanno aderito (cioè hanno fornito i loro dati e si sono assunti la responsabilità “morale” davanti ai colleghi della veridicità di quanto sottoscrivevano) appena in 57: un numero risibile. Contando chi, a vario titolo e con diversi mezzi, si è interessato all’iniziativa senza tuttavia dare un seguito concreto, si arriva a un centinaio, cifra altrettanto risibile.
E’ vero, i paletti (qui) fissati per l’ammissibilità erano volutamente stretti. Ed è anche vero che si trattava di un censimento alla buona, durato un tempo molto breve nonchè divulgato con mezzi caserecci e asistematici (principalmente FB e blog), quindi era estremamente improbabile raggiungere un’audience vasta abbastanza da garantire un numero serio di ritorni. E’ vero pure che i freelance sono tendenzialmente solitari, distratti, cinici e un po’ menefreghisti.
Eppure resto convinto che non sia questa la vera ragione del bassissimo numero di adesioni. Se dei circa 2mila sedicenti freelance italiani potenzialmente contattati solo in 57 hanno ritenuto di essere nelle condizioni formali e nell’interesse di rispondere, i motivi sono anche altri, più profondi e, diciamolo, pure più ambigui.
1) c’è una vasta percentuale di colleghi che non ha capito o finge di non capire che freelance non vuol dire semplicemente “non contrattualizzato”;
2) c’è una vasta percentuale di millantatori che vuol fare credere di fare il freelance per mestiere (cioè come lavoro unico o prevalente) mentre invece, e non ci sarebbe nulla di male, lo fa come seconda attività se non come hobby;
3) c’è una vasta percentuale che, facendo parte delle categorie 1) e 2), avrebbe oggettivamente difficoltà a specchiarsi nelle esigenze sindacali, fiscali, professionali dei freelance;
4) c’è una vasta percentuale di poteri ordinistici e sindacali (pensiamo alle varie commissioni, i gruppi interni, i coordinamenti più o meno trasversali, etc), tutti indistintamente interessati a “far numero” e a far credere di rappresentare qualcuno il più numeroso possibile, a cui ogni scansione o suddivisione tipologica all’interno del cosiddetto lavoro giornalistico autonomo dà enormemente fastidio; poteri che quindi hanno boicottato, o sconsigliato, o abbuiato la possibilità di aderire al censimento, se non la sua stessa esistenza;
5) c’è una vasta percentuale di colleghi che ha semplicemente le idee confuse sulla libera professione e nessuno contribuisce a chiarirgliela (vedi categoria 5), così tanti non sanno letteralmente cosa sono nè a che santo votarsi per individuare il proprio profilo professionale;
6) la massa critica dei freelance propriamente detti si è, nell’ultimo quinquennio, drasticamente ridotta per l’effetto congiunto della crisi economica, la contrazione dei compensi, la chiusura delle testate, l’aumento dell’età media, la pressione fiscale e in generale l’aumento insopportabile dei costi, il progressivo slittamento di molti nel semiprofessionismo o in professioni contigue al giornalismo.
Eppure, dalle parole che ho scambiato con parecchi di quelli che hanno aderito, sono ancora riuscito a percepire un soffio di orgoglio, o forse di testardaggine, nella possibilità di resistere.
Sarebbe bello se ne parlasse in concreto anche all’imminente Festival del Giornalismo di Perugia, che la mattina del 24 aprile alle 10 dedica uno spazio (anche) ai freelance: “SurvivalCamp, il barcamp della sopravvivenza dei giornalisti“, dice il titolo. “I giornalisti precari italiani nel corso degli ultimi due anni hanno acceso i riflettori sulle loro condizioni di lavoro, sempre più drammatiche“, si legge nella presentazione. “Compensi vergognosi, leggi per l’accesso alla professione e sul finanziamento all’editoria da riformare, l’eterno dualismo tra sindacato e ordine professionale. Un anno fa il festival di Perugia si aprì con un evento dedicato ai giornalisti precari. Quest’anno si incontrano al Festival le rappresentanze di base dei coordinamenti di giornalisti precari, gli esponenti dell’Ordine e della Fnsi. La domanda è una sola: a che punto è la salvezza di questo mestiere in Italia? Ma si vuole andare oltre al racconto delle difficoltà, nonostante la crisi economica e di settore. Cercare di raccontare la vita dei giornalisti freelance e di come questi stiano aguzzando l’ingegno e le competenze per sopravvivere nella difficoltà e forse fare meglio dei giornalisti “strutturati”.
Io ci sarò. Per parlare del censimento. E aspettando il Pulitzer, naturalmente.