Riflessioni “semifredde” sul meeting di freelance e precari svoltosi oggi al Festival del Giornalismo di Perugia. Le distanze si accorciano, qualche equivoco resta. C’è il presidente dell’Ordine e anche questo è un segnale. Ma sugli articoli pagati pochi spiccioli non c’è ancora sufficiente chiarezza.

Dopo le premesse (qui) e la cronaca (qui), ecco un po’ di ragionamenti a mente fredda.
Punto primo: la soddisfazione resta. Incontrarsi de visu è non solo sempre positivo, ma consente sottigliezze e reciproche comprensioni che nessuna chat o dibattito telematico potrebbero consentire. Conoscersi di persona ti fa passare da estraneo totale a conoscente e il livello di rispetto, di ascolto, di attenzione triplica. Non sembri banale. Sono venute fuori più cose importanti ieri mattina a Perugia e sei mesi fa a Firenze che in anni di astiosi confronti su FB. Morale: sarebbe il caso che l’appuntamento diventasse fisso, diciamo semestrale, e costituisse davvero il momento per fare il punto su una situazione che si evolve rapidamente quanto basta da essere aggiornata spesso, ma non abbastanza da necessitare di continui ping pong. Mettere in luce le convergenze dovute alla differenza tra le diverse figure di giornalista autonomo è fondamentale per creare un ventaglio sufficientemente variegato di rivendicazioni destinate, altrimenti, a smarrirsi nello strumentale minestrone nel quale finiscono poi per essere (ad arte?) relegate.
Punto secondo: il presidente dell’OdG, Enzo Jacopino, non solo è intervenuto, ma è rimasto per l’intera durata del (lungo) incontro. Una permanenza interessata? E’ ovvio, anche perchè in qualche modo quella perugina era una riunione convocata come il “seguito” di quella fiorentina di ottobre, promossa dall’Ordine. Ma non si è trattato solo di una presenza istituzionale (a Firenze i vertici dell’Fnsi dedicarono all’assise di freelance e precari appena un’oretta del loro prezioso tempo, sottratto peraltro a un seminario parallelo da loro stessi “casualmente” organizzato nella vicina Fiesole proprio nei medesimi giorni). Jacopino ha ascoltato, è intervenuto, ha pure polemizzato, ha chiacchierato e insomma ha dato la sensazione di esserci. Mi è parsa, per l’evento, una legittimazione non da poco.
Punto terzo. Gli argomenti sul tavolo erano caldi, molto attuali e venati di varie implicazioni che esondavano dalla stretta questione del lavoro giornalistico autonomo. Si andava dagli aspetti contrattuali al conflitto in corso tra OdG e Fnsi, per arrivare a punti di vista fortemente divergenti anche dal punto di vista “ideologico”. Ebbene, le punzecchiature e anche le frustate non sono mancate, ci sono stati i botta e risposta, i commenti, gli scambi di opinione. Ma, grazie a Dio, niente isterismi, niente derive assemblearistiche, niente sequestri di microfoni, niente predicozzi, lagne e retoriche, niente comizi. Insomma, per una volta la categoria ha dato prova di una certa maturità e consapevolezza anche dialettica. Chapeau.
Punto quarto: io e i “coordinamenti”. Ho sempre avuto un rapporto tendenzialmente conflittuale con i coordinamenti dei precari. Pur condividendo con loro molti punti di vista su tante questioni professionali, ero convinto che avessero una (inevitabile e entro certi limiti comprensibile) inclinazione giovanilistica che alla fine rischiva di limitare la loro capacità di cogliere in tutta la loro ampiezza trasversale e transanagrafica i problemi della categoria. Spesso concordavo con loro sugli obbiettivi ma non con i metodi, che trovavo talvolta fin troppo “movimentisti” e isolazionistici: vabbene la diffidenza e il furore, pensavo, ma non può sfuggirgli la necessità di certe azioni corali. Mi pareva pure che a volte fossero preda di una certa confusione concettuale sulla figura dello stesso “precario”, tendendo a far ricadere nel termine, senza troppi distinguo, anime professionali tanto diverse da avere spesso interessi contrapposti. Dopo l’incontro di ieri non ho cambiato idea su tutto, ma ho riscontrato una flessibilità dialettica, una capacità di ascolto e una maturità maggiore di quella che avevo stimato. Mi pare giusto darglierne atto.
Punto ultimo: questione dei pezzi pagati 3 euro (cifra simbolica: potrebbero essere 1 o 10 o 30, sempre pochi sono). E’ l’unica delle questioni rimasta in sospeso, sia perchè tocca molto da vicino la sfera emotiva individuale, sia perchè su di essa aleggiano ancora molti equivoci. La si affronta spesso, secondo me sbagliando, con un approccio pauperistico e autocommiseratorio che storna l’attenzione dai punti sostanziali. Ovvero questi: a) nessuna necessità giustifica lavorare in perdita, perchè in tal modo si finisce per sommare necessità a necessità: se ho bisogno di soldi e, lavorando, invece di guadagnarli, li spendo, faccio autogol. La comprensione di questo basilare concetto spesso sfugge ai più; b) nemmeno il fatto che “tutti” (cioè anche le grandi testate) paghino due spiccioli lo giustifica: anzi, un male generalizzato va a maggior ragione rifiutato; c) per le ragioni dette al punto a), i “300 euro al mese” messi insieme scrivendo 100 articoli (3,3 al giorno festivi compresi per un tempo di lavoro calcolabile in 12 ore giornaliere) non sono nè possono costituire un reddito utile, sia perchè sono una cifra con cui è oggi oggettivamente impossibile “campare”, sia perchè il tempo che esso ti assorbe per essere prodotto non ti lascia la possibilità di fare altro (salvo farsi mantenere). Quindi, in termini logici e professionali, il giornalismo a 3 euro a pezzo è un “non lavoro” o , come dico spesso, un hobby costoso.
Punto ultimo bis: ma c’è un ulteriore però. Se si va a verificare, ci si accorge che chi è impigliato nel sistema che convenzionalmente chiamo “dei 3 euro” non è un libero professionista, perchè in realtà quasi sempre lavora a cottimo solo per una testata (nè gli rimarrebbe il tempo di lavorare per altri). Non è neppure un precario, cioè il titolare di un contratto a termine, perchè il contratto non c’è. Non è neppure un collaboratore in senso tradizionale, perchè la collaborazione non è occasionale, ma continuativa. E non è neppure un cococo o un cocopro, perchè il compenso è a pezzo e non al mese.
Ed eccoci all’acqua, allora. Nel 90% dei casi, chi lavora come un mulo per un solo giornale a 3 euro al pezzo è, banalmente, un abusivo. Cioè qualcuno che a tutti gli effetti svolge il lavoro di un contrattualizzato, ma senza esserlo. La sua necessità allora, e la sua rivendicazione, non sono nè possono essere un aumento del compenso unitario ad articolo (aumento che poi diverrebbe del tutto inutile se e quando il giornale diminuisse il numero delle committenze e cessasse di commissionare articoli), ma di un contratto. Cioè di uno stipendio. Insomma di un compenso orario. Ciò che rende il giornalista in questione un dipendente e non più un autonomo. Fuori da queste nebbie, tutto allora diventa più chiaro.
Bisognerebbe però, per cominciare, che lo fosse innanzitutto nella testa dei diretti interessati.