Oggi, al Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore, viene riesposta al pubblico, dopo un lungo restauro, la Porta del Paradiso del Battistero di Firenze, capolavoro quattrocentesco di Lorenzo Ghiberti. Bella, anzi bellissima. Fantastica. Ma mai come quando l’ho vista, nuda e carnale, sul tavolo dell’Opificio.
Adesso scriverò una cosa che farà rizzare i capelli agli storici dell’arte: la condizione in cui un’opera d’arte è più bella di sempre è quando è in restauro.
Nuda, cioè. E indifesa. Priva degli orpelli, adagiata in posizione innaturale, osservabile quasi perversamente da molto vicino in tutti i suoi guasti, le sue imperfezioni, i cedimenti. I chiodi ritorti del telaio, il legno grezzo della cornice, la setola del pennello rimasta imprigionata nel colore, il buco nella tela, l’alone del nerofumo, la pittura che si distacca come una crosta, la scheggia mancante. Sono come le smagliature sul corpo di una bella donna che mille volte hai desiderato osservandola da lontano, quando appariva impeccabile sotto l’effetto seducente del trucco e dell’abito, e che adesso hai invece lì, davanti a te, disponibile, senza segreti, vera nella sua fisicità e carnalità reali.
Dipinti, sculture, architetture: per tutti è lo stesso. La vicinanza, la tangibilità e la mancanza di filtri le rende umane. Le cala dal contesto alto dell’arte e le porta a quello pedestre, fisico di noi mortali.
Anni fa ebbi la fortuna di essere uno dei primi giornalisti a visitare, appena scoperta, la necropoli ellenistica di Bahariya, alle porte del Deserto Occidentale egiziano. Migliaia di sepolture ipogee disseminate in chilometri di cunicoli dove, adagiate da oltre duemila anni e dimenticate, giacevano le mummie, custodite nei loro sarcofaghi policromi, dei quali neppure una secolare coltre di polvere riusciva a scalfire il naturale bagliore.
Via via che gli archeologi le estraevano da quel budello sotterraneo, venivano portate in un hangar improvvisato di legno e lamiera e lì distese in ordine, una accanto all’altra, su dei tavolacci, con solo un lenzuolo a coprirle fino all’altezza del petto.
Sotto il tetto di quel capannone scricchiolante, con le lame di luce sahariana che filtravano dalle assi delle pareti e un’aria impregnata di pulviscolo in sospensione, gli occhi bistrati delle mummie fissavano il soffitto, immobili, con un’espressione fissa, mista di morte fatale e di raggelato stupore per un brusco risveglio. Come cadaveri freschi alla morgue, orfani recenti della vita, o come pazienti in coma profondo e irreversibile ma vivi, inchiodati da anni in un letto-mausoleo d’ospedale.
Ebbene, in nessuna delle mie pur numerose frequentazioni egiziane ho incontrato mummie più belle, palpitanti e vere di quelle, sebbene non fossero nemmeno paragonabili a quelle dei musei.
Racconto tutto questo perché ieri ho assistito, a Firenze, alla conferenza stampa di presentazione del restauro della Porta del Paradiso (una delle porte del battistero fiorentino) di Lorenzo Ghiberti, tra i massimi capolavori del Rinascimento, che da oggi, dopo 22 anni, verrà riesposta al pubblico nella sua interezza all’interno del Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore. Un’opera di una bellezza indicibile per un restauro, come è stato definito, “epocale”, tale è la sua importanza simbolica, metodologica e tecnica.
A me però, tra i marmi del museo e le prolusioni dei soprintendenti, la memoria è tornata a un annetto fa, quando passeggiavo per le vie del centro storico della città. Via degli Alfani, per la precisione. E’ lì che ha sede l’Opificio delle Pietre Dure, una delle massime istituzioni mondiali per la tutela delle opere d’arte.
Passo lì davanti e mi sento chiamare. Mi giro e proprio dal portone dell’Opificio vedo sbucare il caschetto scuro di una carissima amica. Che mi getta le braccia al collo, qualche convenevole, poi mi prende per mano e mi porta dentro. Prima che abbia il tempo di chiedere, mi mette al petto un pass e mi conduce, attraverso varie aperture, a un vasto laboratorio al pianterreno, pieno di macchine, attrezzature, argani.
E nel mezzo, adagiata su supporti tecnologicissimi di cui oggi non saprei più descrivere nè la struttura nè il funzionamento, lei: la Porta del Paradiso del Ghiberti. Enorme. Coricata. Parzialmente impacchettata in bolle di plastica piene d’azoto. Tutta di bronzo, in parte dorato. Bassorilievi, cornici, figure, teste, busti e spade. Un peso pazzesco (8 tonnellate), un’opera pazzesca (alta 5,20 metri e larga 3,10 per 11 cm di spessore), un restauro pazzesco fatto millimetro dopo millimetro da un’equipe di restauratori che si sono alternati e passati il testimone negli anni. Tra loro la mia amica e guida, Stefania Agnoletti.
Mi avvicino e osservo, con tutto l’entusiasmo dell’occhio profano, gli incastri, i perni occulti, le aggiunte, la tecnica costruttiva, i segreti del montaggio. Scopro dettagli inimmaginabili, ora lucenti per il recente recupero ed ora opachi, quasi illeggibili per le offese del tempo, delle alluvioni, dello smog.
Così, struccata e nature, la grande porta mi è sembrata una sorta di grande matrona assisa nei suoi appartamenti in un momento di intimità, scarmigliata, un po’ stanca. Segnata, ma viva. Era come sentirne il respiro profondo. Ed era come se la mia amica, che ha passato anni china su di lei, fosse anche la custode dei mille segreti che ella aveva voluto confidarle giorno dopo giorno.
Ecco, so che una Porta del Paradiso così, non la vedrò mai più.
Nemmeno quando, come annunciato ieri, l’avranno ricollocata (nel 2015, dicono) in un salone ad hoc del nuovo museo, vis a vis con la ricostruzione della facciata del Duomo tale e quale l’aveva progettata Arnolfo di Cambio.
Il che naturalmente non vuol dire che non valga la pena di ammirarla oggi: tutte le info sono su www.operaduomo.fi.it