Forse mentre già meditava l’ascesa all’eroico traliccio, Giangiacomo Feltrinelli, padrone miliardario radical-chic, arriva in ufficio, si toglie il paletot di sartoria e comincia a discettare di comunismo. Luciano lo ascolta un paio d’ore, poi si alza, mostra il pugno chiuso e…il resto nell’esilarante racconto di sua figlia.
“…Alla Feltrinelli ovviamente un tipo come lui non poteva trovarsi bene perché anche già il fatto di arrivare in orario in ufficio era un grosso problema. Trovò vari amici e collaboratori, tra i quali Giampiero Brega, Valerio Riva e Fabrizio Onofri… però non gli piaceva quel lavoro: chiamava Giangiacomo Feltrinelli “il Giaguaro” o “Timberjack” e cercava sempre tutti gli escamotage per riuscire a conciliare il suo modo di lavorare con quello necessariamente burocratico di una casa editrice, sia pur nuova, sia pur di sinistra.
Un episodio per tutti: sia lui, sia Valerio Riva, sia gli altri che lavoravano alla Feltrinelli, all’inizio non guadagnavano molto e facevano una vita piuttosto grama, mangiando alle latterie, magari mezza porzione, mentre Feltrinelli era notoriamente miliardario. Una sera che erano tutti intorno a un tavolo delle riunioni, verso le sei del pomeriggio arriva il Giaguaro fresco di doccia, appoggia il suo bellissimo cappotto di cammello di fianco a quello del Bianciardi, voltato e rivoltato tre-quattrocento volte, e comincia a parlare di giustizia sociale e lotta di classe, per due ore. Mio padre non ne può più, alla fine si alza – gelo, perché non ci si poteva alzare quando parlava il padrone – guarda quel suo cappotto liso, batte la mano sul tavolo, prende il cappotto del Feltrinelli, se lo infila, si pavoneggia un attimo, si volta, poi alza il pugno e dice: viva la lotta di classe, ed esce. È andato avanti per un paio d’anni con questo cappotto bellissimo e gli amici, che sapevano le sue condizioni economiche, gli chiedevano: ma come hai fatto, Luciano, a comprarti un cappotto così bello? No, non me lo sono comprato, me l’ha regalato il Feltrinelli perché lui alla lotta di classe ci crede veramente.
Fu licenziato – non potevano far altro – ma la colpa non era di Feltrinelli, semplicemente non era quello il lavoro adatto per lui: io ero molto piccola (era il ’57) però in seguito ne ho sentito parlare e mi è sembrato di cogliere in questo tutto sommato un certo senso di sollievo. Lui scrisse: “Mi licenziarono soltanto per via di un fatto, che io strascico i piedi, e poi mi muovo piano, mi guardo intorno anche quando non è indispensabile. La verità, cara mia, è che le case editrici sono piene di fannulloni frenetici, gente che non combina una madonna dalla mattina alla sera e riesce, non si sa come, a dare l’impressione fallace di star lavorando. Pensa, si prendono pure l’esaurimento nervoso“.