E così, alla fine, come se si fosse trattato di una banale maratona sindacale sulla pausa-cappuccino, hanno stabilito che la distanza di sicurezza è un metro.
A mare settimane di dibattiti, bozze di decreti, di virologi in tv dedicati ai famosi due metri. Avevano scherzato.
Per me, intendiamoci, i metri di distanziamento sociale potevano essere anche 10 cm o 1 km, bastava che fossero una misura basata su un fondamento scientifico o almeno pratico.
Invece no, essa è solo il frutto di un accordo, di una mediazione in cui hanno prevalso le priorità economiche a breve periodo rispetto a quelle sanitarie a medio/lungo. Tira da una parte e dall’altra, finché le forze non si sono composte.
Tutto formalmente legittimo: sono scelte politiche di cui, almeno si spera, chi le ha prese si accollerà responsabilità e auspicabili meriti.
Peccato però che la salute pubblica non possa misurarsi e calibrarsi contrattualmente.
Ecco perchè il metodo, prima delle decisioni prese, è una sciocchezza colossale: grazie ad esso si introduce una limitazione comunque non facile da far rispettare, ma senza alcuna ragionevole certezza che essa sia anche (e sarebbe la cosa più importante) realmente efficace rispetto a quella fissata in precedenza. Ci si è solo “messi d’accordo” per accontentare i questuanti: un sistema economico in cerca di fatturati, i politici in cerca di consenso, il popolo in cerca di “libertà”, ma garantita da scelte altrui.
Pessimo segnale, insomma: vuol dire che la ragione del libera tutti ha prevalso sulle precauzioni, ma senza un criterio.
Voglio vedere che succederà se e quando, come temo, si dovrà fare una precipitosa marcia indietro. O quando magari, al contrario, si scoprirà che i tre mesi di lockdown erano inutili.
Perchè tutto, alla fine, è sempre una questione di metodo.
