L’ormai dilagante zibaldone del marchettificio camuffato da informazione, una volta detta giornalismo, conquista ogni giorno allori e colonie.
Pensavamo infatti di aver visto tutto. E invece dal cappello dei guru del marketing (complice l’accondiscendenza ammaestrata dei presunti colleghi) escono in continuazione nuove idee o astute e perfezionate riedizioni dei vecchi arnesi.
Ormai, ad esempio, siamo all’esplicita autointervista.
Nel senso che non ti arriva più il solito comunicato stampa con l’ovvio, perfino necessario virgolettato del titolare di qualcosa. E nemmeno la canonica ma inoffensiva pseudointervista anodina preconfezionata, supercazzolamente buona per tutti gli usi e inviata in serie alla stampa, utilissima per riempire spazi bianchi di giornali inutilissimi e per pubblicare senza sforzi finte rubriche.
No.
Ora, naturalmente motu loro, cioè niente affatto richiesta, ti mandano un’intervista ad hoc, fatta proprio al posto tuo e ritagliata su misura su quelle che – secondo il mittente, si capisce – dovrebbero essere le tue domande e la tua testata.
Insomma pensano loro in tua vece, lavorano, scrivono e indagano. Ma naturalmente senza contraddittorio.
Fantastico, no?
Chiamiamolo pure autogiornalismo. Autoerotismo, pure.
Se però dalle redazioni tutto ciò è ritenuto accettabile, tollerabile o addirittura normale, se fossi un lettore qualche interrogativo me lo porrei (visto che quasi tutti i giornalisti hanno smesso di farlo).