A Dig.it niente risposte alla mia domanda: la possibilità del giornalista di fare impresa era finora ridotta per mere ragioni di costi, oggi rimosse grazie all’economicità della rete, o per la più generale necessità di prevenire potenziali conflitti di interesse?
Anche facendo la tara alle osservazioni di chi mi accusa, fraintendendomi, di basare troppo le teorie che sostengo su esperienze e modelli riferiti solo alla mia personale esperienza, quanto emerso sabato scorso dall’atteso (qui) dibattito sulla conciliabilità tra le figure del giornalista e dell’imprenditore, in programma al Dig.it di Prato (qui) sabato scorso, non mi ha convinto del tutto.
Anzi, in generale mi ha convinto molto poco.
Perchè anche in quella sede è affiorata con chiarezza, da parte di coloro che fanno opinione in materia, la tendenza ad aderire troppo incondizionatamente al “pensiero unico” della missione salvifica del web, data sempre per scontata in modo acritico come fattore acquisito, irreversibile e fatale.
Il che nella pratica quotidiana potrà anche essere vero. Ma che mi pare audace e sbrigativo trasferire dal novero dei mezzi, quale la rete è, a quello dei fini.
Il tema della mattinata era: “Il giornalista imprenditore: unica via eppure impossibile da percorrere“. Traduzione: chi fa il giornalista (cioè è iscritto a un albo professionale ed è tenuto per legge al rispetto di certe norme deontologiche) può anche fare l’imprenditore (cioè in sostanza l’editore di se stesso e non) oppure no?
Devo dire che certi elementi di novità, nel trattare del pur abusato tema, non sono mancati.
Interessante ad esempio l’idea sostenuta da Marco Giovannelli, direttore di varesenews.it, uno dei rari casi di testata on line di successo registrati in Italia negli ultimi anni, sul rilancio della “centralità” della redazione come una sorta di “aggregazione” imprenditoriale capace di fare da contraltare al modello di autoimprenditoria giornalistica oggi dominante, tutto basato sull’individualità delle iniziative: diciamo un'”imprenditoria condivisa“, quella predicata da Giovannelli, che a mio parere si presta a qualche suggestione e, perchè no, a qualche esperimento.
Ma a parte questo, è sembrato prevalere tra i relatori – malauguratamente orfani del preannunciato presidente dell’OdG, Enzo Iacopino, la cui presenza invece mai come sabato sarebbe stata necessaria ed opportuna, e del segretario dell’Fnsi Raffaele Lo Russo – l’adesione al prototipo un po’ semplicistico che affida all’elasticità e all’economicità dell’on line la chiave per risolvere la crisi occupazionale del giornalismo e la fame di reddito dei giornalisti: la soluzione di molti, se non tutti i problemi occupazionali nati dal crollo dell’editoria cartacea – questo in sintesi il messaggio che si tentava di far trapelare – sarebbe appunto nell’autoimprenditoria. Cioè nello sbarco in rete, attraverso microtestate a redazione unipersonale o “liquida”, diffusa, tanto dei drop out della carta stampata che dei sempre troppo copiosi aspiranti giornalisti destinati, nell’attuale sistema, a non trovare nè spazio, nè prospettive.
L’assunto di due indubbi esperti della materia come il moderatore Daniele Chieffi e Alberto Puliafito, direttore di blogo.it, è che tanto l’antica ambizione dei colleghi al famoso “posto fisso” (in gergo il cosiddetto “articolo 1“), quanto il fatto che, autogestendosi imprenditorialmente, il giornalista può così ottenere altri ricavi derivanti dalla vendita della pubblicità (sempre lì si torna a battere) o dall’erogazione di servizi o attività parallele (consulenze, copywriting, editing, etc), potrebbero trovare in rete il loro punto d’incontro.
Sarà…
In tutto questo, però, di dubbi o scrupoli deontologici nemmeno l’ombra. Dell’esistenza di norme e di carte ordinistiche molto esplicite nel limitare fortemente la liceità di quanto sopra, neppure. Del latente conflitto di interessi tra l’attività professionale (scrivere articoli giornalistici per conto di committenti che ti pagano per il lavoro svolto e non per il suo contenuto) e quella imprenditoriale (scrivere per gente che ti paga per scrivere quello che vogliono loro), nemmeno. Del fatto che mentre il pubblicista, cioè chi oltre a quello giornalistico svolge in via principale altri mestieri, può appunto avere altre attività, mentre il professionista no, neanche. “Si può sempre tornare pubblicisti“, è stato osservato non del tutto peregrinamente e un po’ provocatoriamente da Puliafito. Il che è verissimo, ma tradisce un’idea dopolavoristica e sostanzialmente liberalizzante della professione che svuota la professione stessa di ogni senso, visto che così facendo si relegherebbe il lavoro di giornalista a un hobby o a una forma di “arrotondamento” di altri redditi. Con il risultato che, a chi manca, il lavoro per campare toccherebbe comunque andare a trovarselo fuori dal giornalismo. “Si può anche fare un altro mestiere, anzichè il giornalista: mica l’ha ordinato il dottore“, è stato ribattuto.
Meno male che a incrinare quell’aria di un po’ compiaciuta egemonia conformista sono intervenuti il presidente e un consigliere dell’Ordine toscano, Carlo Bartoli e Luigi Cobisi, ricordando a tutti le notevoli differenze che corrono tra esercitare una professione intellettuale e esercitare un’impresa. E che una professione ordinistica trova la sua ragion d’essere soprattutto nella legge vigente e non solo nelle presunte opportunità offerte dalla contingenza economica.
Nessuno, purtroppo, alla fine ha infatti saputo rispondere alla mia domanda: la possibilità del giornalista di fare anche l’imprenditore è stata finora limitata da mere ragioni economiche (il web ha reso praticabili cose che con la carta non lo erano per ragioni di costi) o da ragioni deontologiche e di opportunità generale (sottrarre la figura del giornalista a “tentazioni” e a situazioni di conflitto di interesse)?
Ovvio che per me la risposta giusta sia la seconda ipotesi.
Tutti temi che comunque erano già stati sviscerati in anticipo sul blog di Puliafito (qui), che rispondeva (qui) al mio post dei giorni scorsi.
Ecco i passi salienti dello scambio:
Scriveva Puliafito:
Giornalista imprenditore: cercando una definizione
Proviamo a trovare una definizione di giornalista imprenditore. Facciamoci aiutare da Google.
Se cerchiamo sul popolare motore di ricerca “giornalisti imprenditori”, il primo risultato è un post di Stefano Tesi in cui si tratteggiano – anche giustamente, a mo’ di monito – tutte le definizioni deteriori del giornalista imprenditore.
Eccole:
È giornalista-imprenditore: chi fa uffici stampa e scrive articoli sui giornali a proposito dei propri clienti; chi scrive recensioni (ovviamente encomiastiche: ma c’è anche chi ha un tariffario “calibrato” in base alla bontà dei giudizi) pagate non dal giornale ma da un occulto cliente/committente; chi non è giornalista ma si atteggia a tale, pretendendone i privilegi ma non sottoponendosi ai relativi doveri; chi svolge o organizza attività che nulla hanno a che fare con il giornalismo, tranne il fatto di essere svolte o organizzate da un giornalista; chi, facendosi scudo della qualifica professionale, vende pubblicità o mescola senza esplicito preavviso pubblicità e informazione; chi sostiene che “fuori dal giornale” (ad esempio su un proprio blog) può fare quello che vuole (come se, dismessa l’uniforme, un carabiniere potesse giocare d’azzardo o fare spogliarelli); chi sostiene che i “nuovi media”, essendo più “democratici”, permettano a tutti di fare tutto e in particolare ciò che le regole della professione non consentono; chi considera ed usa il giornalismo come una leva del marketing.
Ma è la chiosa di questo paragrafo che fa riflettere ancor di più:
In definitiva è giornalista-imprenditore chi si “arrangia” pur appartenendo a una categoria alla quale arrangiarsi, se non entro certi paletti, non è consentito.
Ebbene, fermo restando che nel suo post Tesi mette, giustamente, i paletti individuando e chiamando per nome tutte le aree grigio-nere di un certo tipo di giornalismo imprenditoriale (quello deteriore), credo che si possa e si debba provare a fare un passo in avanti, cercando una definizione differente di giornalista-imprenditore. Perché oggi, arrangiarsi sta diventando sempre più necessario (lo dimostra anche quel titolo dell’incontro di Digit, cui parteciperà anche Enzo Iacopino, Presidente dell’Ordine dei Giornalisti), quasi una questione di sopravvivenza.
E attenzione: arrangiarsi ha un duplice significato. Vuol dire, sì, «mettere insieme alla bell’e meglio». Ma significa anche cavarsela, destreggiarsi, industriarsi, ingegnarsi. In un crescendo di sfumature che è sempre meno deteriore e sempre più virtuoso.
Si arriva così a delineare quel ruolo che, di fatto, è già ricoperto da tutti coloro che fanno effettivamente i giornalisti e lavorano come freelance, nel magico mondo delle partite IVA o della cessione diritti. Quei giornalisti che sono già imprenditori di se stessi. Per poi provare ad evolvere questo ruolo.
Allora, chi è il giornalista imprenditore? È colui che, rispettando le norme e la deontologia della professione, lavora per sé e non per terzi. È colui che magari prova iniziative imprenditoriali editoriali – anche in collaborazione con altri colleghi. Autopubblicazioni. Strade che esulano dai percorsi tradizionali che vedono il giornalista impegnato nel tentativo di farsi pubblicare un pezzo da un editore, o magari inseguire il miraggio di un contratto giornalistico. Strade che però non prevedono in alcun modo lo svilimento della professione. Anzi. La esaltano.
Io non so cosa significhi, fino a questo momento, essere assunto. E negli anni, soprattutto negli ultimi anni, ho imparato a compensare tutte le negatività dell’essere una partita IVA, lavorando sempre molto – spesso molto più di quanto un orario di lavoro imporrebbe – ma ritagliandomi anche spazi dedicati alle persone che mi stanno vicino e al recupero del piacere di fare cose, fosse anche solo scrivere su questo sito personale.
Ecco perché, per impostazione personale, non posso che vedere il concetto di giornalista-imprenditore nella sua accezione positiva. Il giornalista imprenditore non fa marchette, non usa la sua professione per trarre vantaggi deontologicamente non consentiti. Semplicemente, il giornalista imprenditore lavora prima di tutto per sé e per la nicchia di pubblico cui si rivolge.
Se a questo pubblico riesce anche a offrire un servizio, be’, non sarà quell’etichetta “imprenditore” a squalificarne l’opera.
Giornalista imprenditore: gli strumenti
Il giornalista imprenditore ha a sua disposizione una quantità straordinaria di strumenti, che deve conoscere – dovrebbe conoscerli anche se lavorasse per un editore in maniera tradizionale – e che passano, per forza di cose, dalle innovazioni tecnologiche e del web.
Andrebbero visti in maniera puntuale, e lo farò, probabilmente, nelle prossime settimane, aggiornando questo post.
Quel che è certo è che conoscere il web, il SEO, i social network, conoscere le tecniche per fare un video o per mandarlo in streaming, saper gestire una comunità online, saper mettere in pagina web un pezzo, sono tutte conoscenze che arricchiscono – e non sviliscono – la professione giornalistica.
Rispondevo:
Lusingato delle copiose citazioni, per le quali ti ringrazio.
Condivido praticamente tutto, tranne una cosa che, però, è fondamentale: ciò che dici inquadra alla perfezione la figura del libero professionista, che bisogno c’è di evocare quella dell’imprenditore? L’imprenditore di se stesso (e aggiungo, consentimi l’appunto polemico, il sindacalista di se stesso, visti i chiari di luna federali che viviamo da sempre) è il freelance. Il libero professionista. Colui il quale ha, per l’appunto, l’iscrizione all’albo professionale (e pertanto la qualifica) e la partita iva.
Fare un passo oltre, cioè vendere i propri servizi stando al di fuori del proprio recinto professionale e la relativa deontologia, significa esulare dalla professione (oltretutto ordinistica) e sconfinare nell’alveo dell’impresa. Che è cosa diversa.
Non ne nego la legittimità, sia chiaro, ne nego la compatibilità con la permanza nell’OdG e relativa disciplina.
Conosco bene e comprendo la necessità di “arrangiarsi”, cui non attribuisco assolutamente un’accezione negativa se consiste nel scegliere strade diverse che ti consentano di campare.
Ma se un idraulico, per sopravvivere, diventa falegname, deve andare in cciaa e cambiare la ragione sociale della propria ditta.
Non capisco in nome di cosa si pretenda di restare “professionisti” (nel senso di iscritti a un ordine professionale) ma fare gli imprenditori.
E non mi pare che il web sia una scusa sufficiente a giustificare lo sconfinamento.
Sennò tanto varrebbe abolire l’OdG con le sue regole, ti pare?
Replicava Puliafito:
Stefano, buonasera e grazie per l’intervento. Ho come l’impresione che noi si sia più d’accordo che in disaccordo, e che sia una questione, tanto per cominciare, di nomenclatura.
Per capirci, per me non c’è alcuna differenza fra libero professionista e imprenditore. E non solo per me, ma anche per la normativa europea. Il libero professionista “è” un imprenditore, per la normativa europea («la nozione di impresa abbraccia qualsiasi entità che esercita un’attività economica, a prescindere dallo status giuridico di detta entità e delle sue modalità di finanziamento»). E ancora: «À quindi possibile che sia considerata impresa una persona fisica, sempre che assuma in proprio il rischio d’impresa e che partecipi con la sua attività economica ad almeno una delle fasi di produzione e distribuzione di beni e servizi offerti. La Corte di giustizia ha considerato che la nozione di“attività economica” si applica a qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato».
In questo senso, e solo in questo senso, io mi permetto di parlare di giornalista-imprenditore.
Lo è, per esempio, un giornalista che decida di autopubblicarsi (ebook, inchieste sul web dietro “paywall”, libri d’inchiesta autopubblicati e via dicendo). Lo è anche un giornalista che faccia un proprio progetto editoriale (di nicchia o meno).
Insomma, il punto è che – a mio modo di vedere – si può essere giornalista e imprenditore (ovvero: libero professionista) senza per questo venire meno ai sacrosanti paletti deontologici.
P.s.: spero che fose chiaro il fatto che tutte le parti “deteriori” che individui mi trovano assolutamente d’accordo. Fare marchette non è fare il giornalista.
E io:
Ciao Alberto,
sì, il punto credo sia quello che dici, ma io lo “leggo” all’opposto.
Ovvero: la ratio per cui la cultura e il diritto italiani hanno sempre tenuto distinte le figure del libero professionista e dell’imprenditore (con buona pace delle superficiali norme europee, che a mio parere non costituiscono a priori un modello, tantomeno indiscutibile) è proprio perché si tratta di cose diverse tra di loro.
L’unica cosa che le accomuna è il fatto di essere operatori individuali.
Per il resto sono diversi in tutto: i giornalisti hanno un Ordine e una deontologia codificata, gli imprenditori no; i giornalisti perseguono la verità, gli imprenditori il profitto. Gli editori, non a caso controparte dei giornalisti, sono imprenditori.
C’è ovunque una subdola propaganda per far sembrare desueti o anacronistici i valori che sono alla base delle professioni liberali, o meglio del modo liberale di svolgerle, e di tale propaganda anche l’Ue è complice: vedi appunto certe norme tendenziose che puntano a parificare posizioni diverse. O vedi anche i tentativi di abolire gli studi associati (possibili solo fra professionisti) a favore delle “stp” società tra professionisti, che prevedono la partecipazione di soci non professionisti.
Ciò per dire, e concludo, che stante la normativa vigente le due figure restano incompatibili, cosa a mio parere opportuna.
Quanto a chi si autopubblica libri o inchieste, parlerei di scrittori (tenuti a scrivere opinioni e non a raccontare fatti).
Insomma resto dell’idea che si tratti di mestieri diversi e che il giornalista non possa essere imprenditore, perché altrimenti il suo interesse a guadagnare sarà superiore al suo dovere di informare.
Non ti sembra?
Ps: detto questo naturalmente si può discutere su tutto, ma che c’entra la questione con il giornalismo digitale? Ci si può auto pubblicare anche sulla vecchia cara carta, no?
Lui:
In realtà, però. anche il diritto italiano equipara il libero professionista all’imprenditore (cfr. art. 2238 del codice civile) nel caso in cui «l’esercizio della professione costituisce elemento di un’attività organizzata in forma di impresa». In altre parole, se è dimostrabile che il libero professionista si assume il rischio del lavoro nell’esercizio della propria attività professionale. Ora, nel caso in cui un giornalista si auto-pubblichi, scrivendo per i lettori disposti a pagarlo, evidentemente assume anche il rischio del lavoro. Non credo, sinceramente, che questo infici il suo interesse a informare.
D’altra parte, non credo nemmeno che i giornalisti assunti pagati da un editore-controparte abbiano sempre e comunque e per forza di cose interesse a informare prima che a guadagnare, altrimenti saremmo pieni solamente di giornalisti integerrimi e di un’informazione scevra di qualsiasi interesse “altro” – cosa che mi sembra di poter dire sia molto utopistica, ancorché estremamente auspicabile.
Chiaro che possa accadere anche sulla “vecchia carta”. Ma è evidente che il web abbia moltiplicato le possibilità e abbattuto i costi per chi voglia tentare strade “solitarie” che, a mio avviso, non vanno stigmatizzate ma incoraggiate, se saldamente incardinate ai principi fondanti della professione.
Ancora io:
Capisco cosa vuoi dire ma a me pare utopistico il contrario. Non a caso per i giornalisti parlo di “dovere” di informare e non di “interesse” a farlo.
La norma del cc che citi rende lecito l’esercizio d’impresa da parte di un professionista (e vorrei ben vedere: come si può proibire a un ingegnere di creare una ditta di costruzioni o a un medico una clinica?), ma proprio per questo non implica, anzi direi che esclude il fatto che quell’attività sia considerabile professionale, trattandosi appunto di impresa: il medico con la clinica mantiene cioè la qualifica professionale medico, ma è un imprenditore, con diritti e doveri correlati. Allo stesso modo il giornalista che si autopubblica e/o fonda una testata sua diventa editore, cioè imprenditore, anche se mantiene la qualifica di giornalista, ma esercita un’impresa e non più una professione. Cose ambedue lecite ma ancora una volta diverse in quanto collegate e norme e deontologie diverse.
Quello che l’on line, abbattendo i costi, apra “nuove prospettive” non mi pare un argomento convincente: come detto ieri, la ratio della dicotomia tra imprenditore e professionista non è il livello dei costi, ma il modo di esercizio dell’attività: non è che – perdona l’esempio un po’ grossolano, ma è per rendere l’idea – se si potessero costruire le navi di carta anziché nel più costoso ferro, allora per noi giornalisti si aprirebbero le porte per fare l’armatore, gestire flotte navali è comunque un’impresa, non una professione e la differenza non sta nei costi, ma nella natura dell’attività.
Detto questo, non ne farei una questione di integrità morale ma di regole: l’attività professionale si esercita all’interno di queste, con un ordine che ha il dovere (ed anzi in ciò espleta la propria funzione) di controllarne il rispetto da parte dei propri membri.
Ovvio che ciò comporti un limite alla libertà del professionista, ma è il fatto stesso di essere un professionista che la giustifica. Altrimenti che bisogno ci sarebbe della categoria dei professionisti? Tanto varrebbe chiamare impresa, come vorrebbe l’ue, qualsiasi attività individuale.
Cosa però a mio parere sbagliatissima.