Molti parlano del boom dell’estate 2015, ma scordano i bagni di sangue precedenti e il costante calo di appeal del nostro paese. Ognuno ha una facile ricetta per valorizzare un settore che non conosce. Il problema, infatti, è culturale.
Il turismo è un argomento buono per tutte le stagioni: siccome in pochi ne capiscono sul serio, ma in Italia più o meno tutti ci vivono in mezzo, chiunque ne può blaterare senza correre il rischio di essere smentito.
Così, in particolare d’estate, se ne parla sotto l’ombrellone, sui giornali, nei TG, sui blog. Immancabile il lancio a orologeria della Coldiretti che annuncia (ma che c’entra la Coldiretti col turismo?) il “pienone a Ferragosto” dopo il canonico “tutto esaurito a Pasquetta“. Il che la dice lunga sulla complessità della visione che, in generale, si ha del fenomeno.
Il quale invece, perchè globale e trasversale, è davvero un argomento complesso, da trattare in profondità. Oltre a costituire una delle maggiori industrie – una volta si diceva la più grande, ma in realtà non ne sono sicuro, per quanto la cosa possa contare – del mondo.
Nemmeno il pur brillante e ben informato Gian Antonio Stella, scrivendo ieri sul Corriere a proposito dei punti deboli del sistema turistico italiano, è riuscito a sfuggire ad alcuni luoghi comuni e a farsi risucchiare da certi elementi di dettaglio (le traduzioni spesso maccheroniche e in poche lingue dei portali di promozione, ad esempio), perdendo di vista il nodo di fondo della questione.
Che, a mio modesto parere, è tanto semplice da individuare quanto complicato da sciogliere: è un banale problema culturale.
In Italia abbiamo, forse per un duraturo retaggio postbellico e certamente per nostra istintiva deriva caratteriale, un’idea monocolturale del turismo. Pensiamo cioè, anche contro ogni evidenza e a ogni livello dimensionale, che il turismo sia “la” soluzione. L’uovo di Colombo. Quello che ci risolve i problemi. L’asso nella manica. Un assegno al portatore incassabile in ogni momento, sempre e comunque.
Qualcuno ci ha inculcato questa certezza semplicistica. E di essa noi continuiamo ad essere pertinacemente convinti. Sia che “fare turismo” consista nell’aprire un b&b nell’appartamento sfitto della defunta nonna, sia nel costruire decine di resort ecomostruosi sulle nostre martoriate coste, sia nel riempire i centri storici di negozietti di souvenir, acqua minerale e paccottiglia varia beandosi che facciano affari d’oro.
Del resto è statisticamente provato che, almeno una volta nella vita, quasi ogni italiano vagheggia di “mollare tutto, ritirarsi in campagna e aprire un agriturismo“. Nemmeno fosse un bancomat inesauribile. E come se fosse una cosa facile.
Sfugge invece che il turismo, inteso come risorsa o opportunità economica, può esistere solo come tessera di un sistema all’interno del quale si colloca e di cui è parte integrante. Coerente e lineare, aggiungerei. Elemento di un moto perpetuo che si autoalimenta ed è capace di rigenerarsi non solo adattandosi al mercato, ma prevenendolo. Intercettandone quindi per tempo le tendenze e selezionando quelle più adatte al proprio potenziale d’offerta e sviluppo, formando poi con pazienza e severità le professionalità necessarie a gestirlo con continuità e successo.
Il che vuol dire addio al clientelismo politico e alla distribuzione di posti di lavoro nel settore a chi non ne è all’altezza, alla sinecura degli addetti-bidello, alla faciloneria e al turismo degli slogan (ovvero a ministri, assessori, dirigenti e direttori incapaci o incompetenti in materia), addio all’idea che lavorare nel turismo sia una forma gaudente per vivere senza troppi pensieri, addio alla concezione univoca di un turista babbeo-onnivoro a cui poter vendere qualunque cosa, addio alla retorica del 50% (ma per favore) del patrimonio artistico mondiale e del primato dei siti Unesco (ormai così inflazionati sul pianeta da non attrarre, in sè, più nessuno)
Ma anche addio alla tolleranza verso il becero e l’usurante, addio alla gratuità per forza e al libero accesso senza numeri chiusi, addio ai servizi in cambio di niente (e viceversa), addio alla loro inaffidabilità permanente e alla precarietà degli stessi, addio alla sindacalizzazione del turismo (Pompei docet), addio alla leva speculatoria, cioè al turismo come scusa per strutture e infrastrutture inutili, stazioni fantasma, aeroporti ogni 30 km, pizzerie a schiera. E così via.
Insomma esattamente il contrario di come accade da sempre da noi.
Dove la metà degli operatori è improvvisata, ma poi bastano due mesi di contingenza favorevole perchè tutti tornino a buttarsi nel settore o a illudersi che il futuro sia radioso.
Nella sua multidisciplinarità e nella sua implicita interprofessionalità la risorsa turistica non può essere banalizzata.
Altrimenti davvero, come dice Stella, anche la Norvegia (che è un paese bellissimo) finirà per passarci avanti.