L’ordigno che stanotte ha ucciso ventuno persone all’uscita della messa nella cattedrale copta di Alessandria d’Egitto è un simbolo dal doppio significato: l’involuzione da città a metropoli e da ultimo, impolverato avamposto del cosmopolitismo ad anonima unità del mondo globalizzato. Note sparse di un viaggiatore che l’ha conosciuta da vicino. Tra le ombre di Kavafis e Ungaretti, Callimaco e Ipazia. Passando dal fantasma di Nasser.

Brutto segno quando, ripensando a un luogo che conosci bene, scopri che potresti benissimo descrivere com’era allora, ma non come è oggi. Anche se l’ultima volta che lo visitasti le avvisaglie di ciò che sarebbe diventato c’erano tutte.
E’ quello che ho pensato questa mattina, quando ho letto dell’autobomba scoppiata stanotte ad Alessandria d’Egitto, davanti alla chiesa dei Santi. Ventuno morti, tutti cristiani copti.
Alessandria è una città che amo e che ho visitato tante volte. L’ultima delle quali – purtroppo già qualche anno fa, mi rendo conto solo adesso – proprio nel periodo in cui i grandi cambiamenti non erano ancora avvenuti, ma già si percepivano nell’aria, negli sguardi della gente, quasi (è suggestione, lo so, ma anche questa conta) nella luce obliqua dei tramonti sulla Corniche.
L’Alessandria del 1999 era in pieno fermento. Profondamente egiziana, sebbene d’anima cosmopolita, con le marcate nouances europee ancora affioranti dalla coltre polverosa dell’Egitto islamico e con tutte le sembianze di una metropoli sul punto di rinascere. La grande Nuova Biblioteca era in costruzione, lo scavo febbrile delle fondamenta dei grattacieli portava alla luce la città ellenistica, la via Canopica, le necropoli, scoperte preziose per gli archeologi di cui la comunità pullulava. Mancava solo, ma nell’eccitazione collettiva pareva imminente, la scoperta della leggendaria tomba di Alessandro Magno. Da quella che era stata periferia riemergevano, sotto strati di nerofumo, i marmi e i ferri battuti di ville liberty trasformate per mezzo secolo in tuguri e qua e là brillavano le fiammelle superstiti di un’italianità invecchiata, immalinconita, emarginata ma vibrante di residua nostalgia ed orgoglio. Ad Attarine le ultime botteghe degli antiquari condividevano lo spazio con i fondi dei rigattieri e i laboratori degli artigiani. Si guardava a nord, verso il Mediterraneo, e ad ovest, verso El Alamein: il primo come catalizzatore di investimenti per l’industria del turismo, la seconda come cassa d’espansione dei nuovi insediamenti turistici e residenziali. La casa-museo di Kavafis era il simbolo di un passato cristallizzato, ma intatto e intangibile.
L’Alessandria del 2002 era già diversa. Sotto le apparenze, tutto era statico e l’aria era satura di tensione. Una tensione sottesa, sfuggente, nervosa, frettolosa. Meno sorrisi, meno gentilezza. Sguardi fugaci. L’atmosfera latina sembrava dissolta. Perfino le architetture davano la sensazione di aver mutato i prospetti. La grande Biblioteca dell’Unesco somigliava, per l’aura di controllo poliziesco che la circondava, più un immenso disco volante planato lì da un pianeta lontano che non il simbolo del sapere universale.
L’anno dopo tutto era ulteriormente cupo. La luce del sole fredda, il pulviscolo sospeso nell’aria secco e fastidioso, i poliziotti aggressivi, i tassisti ostili, i commercianti distratti, i ristoranti e gli albergatori rassegnati. Come la comunità straniera, stretta in una sorta di diffusa, indefinita paura mista a rassegnazione. Grandi opere governative in corso, ma nessun segno della vagheggiata fioritura di un lustro prima. Il museo subacqueo del Faro bloccato sine die dalla militarizzazione del porto antico.
Da allora non sono più tornato ad Alessandria, anche se da lontano ho continuato a seguirne le vicende, le cronache, l’eco. Amici mi dicevano che anche lì il tarlo dell’estremismo aveva inondato le strade, i vicoli, le coscienze. Con la perdita dell’innocenza urbana e l’ingresso nella realtà metropolitana, la comunità aveva principiato a smarrire l’antica patina colta – una cultura fatta più di consapevolezza che di libri e di studi – che nemmeno la tempesta nasseriana del ’56 era riuscita a grattare via, e a soccombere sotto la spinta di un proletariato fanatico, di leader demagogici, di una sovrappopolazione onnivora.
Ora la bomba. Il segnale che anche questa è diventata una normale megalopoli del villaggio globale.
E’ calda e polverosa come una brezza nel deserto l’aria di nuovo che da qualche tempo spira su Alessandria, perla un po’ opaca di un Egitto apparentemente perduto. Qualcosa di invisibile e di sottile, nelle viscere della città, ora si muove, polarizza la tensione, si tende di una forza positiva. E mentre il vento fresco del Mediterraneo spazza i balconi dei palazzi ottocenteschi protesi sulla Corniche, portando lontano i miasmi di un traffico automobilistico certamente non catalizzato, ecco che di colpo i sette milioni di abitanti di questa nuova metropoli, figlia di un baby-boom in servizio permanente effettivo e del neourbanesimo industriale egiziano, paiono acquisire una loro leggiadra levità: le suole delle loro pur frenetiche scarpe sembrano sfiorare appena l’asfalto sconnesso dei marciapiedi che, fino a qualche decennio fa, accoglievano i passi illustri di re, nobili, industriali e avventurieri europei. L’amministrazione pubblica vara inattesi, grandiosi programmi di riqualificazione urbanistica. Intanto la gente continua a sorridere, a discutere, a fare commercio, a prestarsi per una foto, a rispondere a una richiesta di informazioni. Niente bambini questuanti però, niente paccottiglia da turismo d’accatto, neanche l’ombra di uno straccio di bakcisch, di mancia insomma. Povertà dignitosa. A visitatore di passaggio potrebbe venire spontanea una domanda: che razza di Egitto è mai questo?”.
Il reportage che scrissi per “Gulliver” nel 1999 cominciava così. Archeologia del travel writing. E archeologia alessandrina.