Con il terzo album la Diane compie una svolta, sospesa tra il grande respiro della maturità e l’incognita del mutamento. Per la prima volta con un produttore vero, il disco fa il paio con il matrimonio, la nuova casa e una stabilizzazione emotiva che può, al tempo stesso, essere linfa o zavorra. Ma che per ora si fa apprezzare.

Un po’ Tanita Tikaram e un po’ se stessa, sempre accompagnata dalle tipiche inflessioni yodel che la presenza al suo fianco – per la prima volta da quando incide dischi – di un produttore vero e proprio (Scott Litt: ha lavorato con REM, Patti Smith, Counting Crows, Indigo Girls e Carly Simon tra gli altri) smussa soltanto, senza rimuoverle, Alela Diane affronta l’impegnativo scoglio del terzo album dopo due piccoli (e un pregevole 10”), venerati, devianti capolavori quasi underground come “Pirate’s Gospel” e “To be Still”. E lo fa affiancandosi una band, The Wild Divine, con la quale condivide il titolo e la titolarità del disco.
E lo fa a sorpresa, mettendosi anche quasi pericolosamente in gioco, visto che la cantautrice californiana non solo alla consolle si affida a persone diverse dal padre, finora sua fedele ombra artistica, ma che esce allo scoperto dopo una sorta di anno sabbatico, vissuto in luna di miele on the road col neomarito, il chitarrista Tom Bevitori, per allestire la sua nuova casa-nido-pensatoio di Portland.
E’ su di giri, Alela. Si sente. Ha le idee chiare. Lo confessa nelle stesse note di copertina. E soprattutto lo si avverte tra le tracce, dove si legge una sicurezza compositiva talvolta perfino sfrontata, a tratti pure incrinata da (forse inconsapevoli) piccole concessioni al mainstream, minuscoli granelli di sabbia che rendono le canzoni orecchiabilmente ruvide e le privano di quella patina di piacevole ingenuità divenuta un marchio di fabbrica delle precedenti incisioni. Ma contribuiscono anche, sull’altro versante, a regalare un album completo, rotondo, godibile. Capace a volte di ricordare per come si sviluppa, per il respiro generale, per la tensione e il richiamo a certe sonorità (mutatis mutandis naturalmente) alcune pietre angolari della carriera di altri grandi artisti, come lo fu ad esempio “Harvest” per l’immenso Neil Young.
Tuttavia è forse perfino ingiusto contestare a questa giovane cantautrice, fin troppo relegata dalla critica, più che da se stessa, nel novero dei bohemienne senza se e senza ma, l’entrata formale nel gran circo dell’industria discografica. Che circo, poi. Sarebbe meglio dire il circuito della musica professionistica. Facendo parte del quale, a questi livelli di popolarità, certo non si autosancisce la propria complicità con biz, né si tagliano per forza i cordoni ombelicali con le proprie radici.
Perché va detto che, ad un ascolto prolungato ed attento, con la mente sgombra dai preconcetti di chi si aspetta in ogni caso qualcosa di ruspante – come se in un musicista le idee, le influenze, gli umori, lo stile, l’ispirazione non si evolvessero mai, prendendo strade a volte anche molto diverse che in passato – questo “Wild Divine” esce a pieni voti: potente ma screziato nei toni, marchiato da un’inflessione genuinamente americana che nulla concede al risaputo e ci offre un’autrice nella sua piena maturità. Senza gli spigoli acerbi della sofferenza, forse. E senza toni gravi e taglienti di chi ha molto vissuto e suonato ed inciso. Ma in fondo non abbiamo nessuna prova che ciò fosse nelle reali corde artistiche di Alela.
Ha insomma, anzi avrebbe (se diventasse un best seller, cosa di cui onestamente dubitiamo, sebbene qualche potenziale ci sia) tutti i numeri per diventare un classico, questa terza opera della Diane: una produzione riconoscibile, corretta e non invadente, un suono vivace ma non troppo, né fastidiosamente colorato, canzoni dense della consueta, scintillante verve. E poi arrangiamenti coerenti, una strumentazione apprezzabilmente tradizionale e, in generale, un’ispirazione lirico-compositiva coesa, che non deraglia neppure nei pezzi stilisticamente meno prevedibili.
Senza dubbio, “Alela Diane & the Wil Divine” è un album-bivio, una biforcazione nella carriera della nostra. Una strada da cui difficilmente si torna indietro, se non rassegnandosi a rientrare nel limbo eroico, ma di solito poco gratificante, degli artisti di culto. Eufemismo, secondo alcuni, per definire le promesse mancate.
Per adesso godiamocelo. E poi vedremo se il matrimonio, il produttore, la casa vittoriana e una certa pace interiore ci lasceranno l’Alela che conoscevamo o ne faranno un sol boccone.