Era il 117° capo dei cristiani d’Egitto. Per oltre quarant’anni ha guidato la sua chiesa, accompagnandola dalla rinascita postbellica al consolidamento e poi attraverso le crisi interconfessionali degli ultimi anni. Questo è il reportage che scrissi dai monasteri nel deserto per Gulliver, nel 2001.
Come lo scheletro di un’enorme astronave, o come il telaio, fuso in una lega verdastra, di una futuribile cattedrale gotica, l’ossatura di quella che sarà la nuova chiesa del monastero di San Paolo si eleva su uno sperone di calcare del Deserto Orientale, quasi a montare la guardia alla scarpata dell’altopiano che sta alle sue spalle. Sullo sfondo, nell’aria resa tremolante dal calore del sole, si intuiscono la striscia blu del Mar Rosso e le spiagge dorate di Hurgada. Ma di vacanzieri e di edonisti qui non c’è traccia.
Al cospetto del grande tempio che sta per sorgere, anche l’imponente monastero tende a rimpicciolirsi, mimetizzato nei colori dell’ocra e della sabbia. E le finestre aperte sulle mura a perpendicolo, costruite chissà quando per difendere i monaci dagli attacchi dei beduini, adesso sembrano piccoli occhi aperti su un mondo che all’esterno cresce inquietante ed estraneo. Il rimbombare sordo di un macchinario – un generatore, un mantice, forse un gigantesco maglio – incrina il silenzio della grande spianata deserta, ai margini della quale una figura esile, nera e barbuta attende qualcuno. Quel qualcuno siamo noi, attoniti visitatori di un universo che ha appena iniziato a disvelarsi, ma senza dare per ora una sola risposta ai tanti interrogativi sgorgati da giornate intere di letture e di esplorazioni.
L’universo è quello copto, la chiesa cristiana d’Egitto.
Eppure lo strillo di copertina del Cairo Times, compassato settimanale cairota, non lasciava caso passeggiando tra gli scaffali della libreria dell’Università Americana del Cairo. Sotto al titolo, il catenaccio ribadiva annunciando al mondo l’esplosione del numero dei fedeli. Quanti sono nel mondo, si chiedeva il giornale, i copti? E in Egitto? Quindici milioni, come sostengono loro, o sette e mezzo, come precisano le fonti del governo egiziano? Mistero. “Tutto ricominciò negli anni ’50 – racconta il CT – con l’esodo in Occidente di 750mila egiziani copti, la metà dei quali in Nord America”. Crescete e moltiplicatevi. E i monaci? Nel dopoguerra, forse il momento più difficile della storia recente della chiesa cristiana d’Egitto, erano scesi ad appena duecento in tutto il paese. Oggi sono – dovrebbero essere – oltre duemila.
Samaan, quello in paziente attesa sulla spianata del monastero battuta dal vento caldo, è uno di loro. Il suo sorriso è grande, ma si intuisce appena dietro un’immensa barba screziata e due spessi occhiali. Tutto il resto, compresa l’età, è nascosto da una cuffia nera ricamata con tredici stelle dorate (rappresentano Cristo e i dodici Apostoli, ci spiega con gentilezza) e da una lunga tonaca altrettanto nera. Spaesati, non ci accorgiamo subito del suo inglese fluente mentre lui si è già addentrato nei budelli umbratili del monastero per una visita che, a prima vista, ha tutta l’aria di una stanca escursione di routine.
Seicento chilometri a nord-est di San Paolo, oasi di Wadi Natrun, alle porte del Deserto Occidentale. Monastero di Baramos. Dopo una lunga passeggiata sotto i pergolati ed un’ora abbondante passata ad ammirare le architetture ed i legni consunti dal tempo nella magnifica chiesa della Santa Vergine, fondata nel IV secolo dopo Cristo, padre Yehnnes si siede sul bordo del camminamento che, come in un fortino della Legione Straniera, bordeggia le mura del convento. Viste dall’alto, le cupole gialle di mattoni e fango delle coperture, la mole della fortezza e le rampe contorte di scale assumono un aspetto soavemente solare: “Non male la vista da qui, vero?”, dice ammiccando il religioso.
Mi affaccio: sotto c’è in realtà un deserto brullo e grigio, qualche stenta sterpaglia, la sagoma familiare dei vicini monasteri di St. Bishoy e di Al Souriani, quest’ultimo arroccato su un’altura irta di palme simile a un’oasi fortificata. Proprio davanti a noi, invece un gigantesco cantiere giace intorno ad un’altrettanto gigantesca struttura. “Che cos’è?”, chiedo io. “La nuova cattedrale”, mi risponde con naturalezza Yehnnes in perfetto italiano, allungando poi l‘occhio compiaciuto verso il vasto compound circostante, un villaggio a squadra che ospita le celle dei monaci, gli uffici amministrativi, gli alloggi per i pellegrini. Già, i pellegrini. Anche qui, in primavera, ne giungono a migliaia e con ogni mezzo. La nuova cattedrale serve per contenerli tutti. Padre Yehnnes spiega di aver imparato la nostra lingua durante il suo soggiorno in Italia: “Sai – sottolinea sorridendo – anche da voi siamo diventati in tanti”.
Monastero di Al Muharraq, Medio Egitto. Sotto il sole implacabile, un febbrile esercito di muratori, manovali, fedeli, poliziotti e monaci si accalca tra camion, ponteggi e calcinacci. Tutto, comprese icone ed altari, è cosparso di polvere di cemento. Sembrano i primi soccorsi dopo un terremoto. Invece è solo un giorno qualunque delle interminabili operazioni di restauro dell’antico convento. Andranno avanti per mesi, forse per anni. La chiesa antica, si dice consacrata personalmente da Gesù dopo la Resurrezione, si trova oggi tre metri sotto il livello stradale. Inghiotte ed erutta persone come un formicaio. Le guide spiegano, la gente prega, gli operai lavorano incuranti del caos. “Quell’edificio chiaro ospita il seminario, l’unico rimasto in Egitto, mentre la villa accanto fu costruita negli anni ’30 per il nostro patriarca, la progettò un italiano” dice il monaco che ci fa da guida indicando con la mano una grande costruzione in stile liberty. Da sotto la tonaca, al posto dei sandali, spuntano inattese un paio di scarpe da cerimonia nere e lucidissime, nonostante la polvere. Non ci ha detto come si chiama. In un inglese oxfordiano, il nostro accompagnatore si è limitato a presentarsi come l’addetto al ricevimento degli ospiti. Ha i modi, la flemma ed il tratto di un aristocratico saudita. Non ride mai. Sorride spesso. E senza fare una piega si presta a farsi fotografare: “I rapporti con i musulmani?”, dice, “Buoni. Molti prendono in affitto i nostri terreni. Ma l’anno scorso uno dei miei confratelli è stato ucciso con un colpo di fucile. Sai, qui il settanta per cento della comunità è copta. E questo è l’unico monastero dove si celebra ancora la messa in copto. Fino a cinquant’anni fa, era la lingua corrente”.
La risposta a tutti i nostri interrogativi forse sta nella fronte liscia e nevrile di Samaan e in quegli occhi scuri che, invisibili dietro le lenti alla luce del sole, guizzano e ridono sotto quella del neon. Una risata strana la sua, squillante e giovanile. E’ notte fonda. Ma lui, impettito e composto come un vescovo, non sembra aver nessuna voglia di ritirarsi e di lasciare quella poltroncina della foresteria dove lo teniamo inchiodato da ore. L’indomani lo attende una giornata massacrante: sveglia a 3, preghiere dalle 4 alle 6, poi un paio d’ore di messa e quindi le incombenze della funzione assegnatagli dall’oskof, il capo del monastero: ricevimento e relazioni esterne. Impegni da manager di una multinazionale.
Ma invece che di dividendi e di finanza, stasera a San Paolo si parla di spiritualità. Dell’intima natura eremitica del cristianesimo copto: “L’eremita – spiega il monaco – è qualcuno che è più vicino degli altri a Dio. In questo sta il suo stato di grazia, la sua solitudine. Egli partecipa a una soglia più elevata di conoscenza. Non ha bisogno dell’isolamento fisico. Gli eremiti non sono sulla montagna, come si pensa, sono tra noi, nel monastero. Ma non tutti noi possiamo riconoscerli, né loro rivelarsi”. E le storie degli eremi misteriosi sparsi per il deserto, le chiese nascoste, le grotte abitate da anacoreti? “Tutto vero”, risponde il monaco senza aggiungere altro. Fuori, il vento gelido del deserto spazza senza tregua le baracche, i cortili del convento, le basse case dei pellegrini dagli infissi malfermi e cigolanti sotto il buio incombente della notte. Il freddo è pungente. Quanti anni ha Samaan? “Ho trent’anni”, ci trafigge lui all’improvviso. E la barba da ottuagenario? “Ce l’ho da quanto sono diventato monaco, tre anni fa”, precisa senza darci il tempo di chiedere altro. Poi in un attimo, come se temesse di essersi spinto troppo in là, scivola dalla porta e scompare nell’oscurità: “Ci vediamo domattina alle quattro”, sussurra prendendo congedo.
Il monastero di Sant’Antonio non dista da quello di San Paolo più di venti chilometri in linea d’aria. I monaci dicono che, attraverso il deserto, lo si può raggiungere in una giornata di cammino. I più ardimentosi escursionisti occidentali ne impiegano almeno due. In macchina ci vogliono appena un’ora di viaggio e ottanta chilometri di asfalto. Le guide insegnano che il monachesimo eremitico della chiesa copta d’Egitto (e di conseguenza anche tutto il monachesimo europeo) nacque qui, dove Antonio trovò rifugio su un’altura, attirando a sé fedeli e seguaci. Dal convento ci si arriva in un’ora e mezza di passeggiata e ne vale la pena. La leggenda racconta che, quando era già venerato ed aveva già fondato il suo monastero, il Santo fu avvertito da un angelo che in una grotta poco distante viveva, in condizioni estreme, un altro eremita più vecchio, più ascetico, più santo di lui: era San Paolo, che aveva superato la soglia dei 110 anni di età e dei 90 di eremitaggio. I due si incontrarono, pregarono insieme, dopodiché Paolo chiese ad Antonio di ricevere, prima di morire, un abito da monaco.
Oggi la comunità di Sant’Antonio ha oltre cento monaci, tre cinte di mura, case, dieci chiese, orti, giardini e le dimensioni di una cittadina medievale. Sotto al punto in cui, dalla torre, un tempo calavano un cesto di legno sollevato da una carrucola per far entrare uomini e cose è stata aperta una grande porta varcata ogni anno dalle solite migliaia di pellegrini, che affollano il negozio di souvenir. Gestito anche questo, manco a dirlo, dai religiosi. I restauri fervono, le maestranze lavorano, i monaci pregano e continuano ad aggirarsi per i vicoli del convento, silenziosi, severi. Sulla nuca la loro cuffia ha un lunga cucitura ricamata che divide la calotta a metà: è simbolo della sutura fatta dal Santo, dopo che ebbe il cappuccio lacerato dal demonio durante un combattimento. Padre Rueis non ci spiega però se lotta fosse mistica o fisica. Né se lo squarcio abbia ferito la testa o la fede stessa dell’eremita.
Quattro del mattino, buio pesto. Le fioche luci al neon oscillano sotto la brezza. Il monastero è deserto, proprio come tutto intorno per centinaia di chilometri. Chiusi nel giubbotto, dopo una notte quasi insonne sulla branda della foresteria, seguiamo in silenzio il percorso che Samaan ci ha indicato. L’eco ovattata di una nenia lontana ci dice che la chiesa dove i monaci hanno iniziato le preghiere mattutine è vicina. Le scarpe e i sandali riposti alla rinfusa su una rastrelliera ce lo confermano. Affiora il suono argentino di una campanella. Varchiamo l’architrave dipinta di verde scuro ed entriamo.
Disposti su tre file, in piedi davanti a lunghi leggii, i religiosi modulano in arabo un cantilenante salmo responsoriale, divisi in due cori. Qualcuno ogni tanto si allontana e torna poco dopo. L’aria è impregnata di incenso. Pochi fedeli seguono la cerimonia: c’è chi prega per proprio conto, chi accompagna i salmi. Chi osserva. Accasciata su se stessa, su una sedia di plastica, una donna corpulenta si è addormentata e ronfa, ma nessuno sembra farci caso. Seduta sul pavimento accanto a lei, una bimbetta si guarda intorno. Forse è sua figlia, forse no. Appesa di sbilenco al soffitto, da cui penzola un groviglio di fili elettrici e di reostati made in China, una gabbia insetticida dimostra che pure qui si è infiltrata la modernità. Il canto ha un sussulto, la melodia muta di colpo, poi tutto degrada per tornare lentamente al tema iniziale. I sonagli riprendono a suonare. La gente va e viene in silenzio, con passi attutiti dai pesanti tappeti. Solo dopo un paio d’ore notiamo che, nonostante l’atmosfera arcana, quella chiesa è piena di luce e che decine di lampadine sono accese sopra di noi. Samaan ci saluta con uno sguardo complice. Non ha mai dubitato che ci saremmo incontrati.
Al momento di iniziare la messa vera e propria, un monaco scosta la tenda che nasconde l’altare, mentre gli altri vestono sulla tonaca nera una tonaca bianca. Le preghiere proseguono ossessive. Usciamo. Sulla spianata il sole è già alto e il battito del maglio ha ripreso da tempo il suo ansimare. Prima di partire, l’autista raccomanda di lasciare un’offerta per il monastero. Quanto? “Quella che volete – precisa – tutto qui si regge sulla carità dei fedeli, la nostra chiesa dipende dalla loro generosità”. Depositiamo cinquanta lire egiziane in una cassetta metallica. Quattordici monasteri, quattro conventi femminili, nuovi centri di accoglienza e nuove chiese copte in costruzione in tutto l’Egitto. Mentre ci allontaniamo, ci sforziamo di credere che, grazie al nostro contributo, il cantiere per la costruzione della cattedrale abbia fatto un altro, impercettibile, passo in avanti.