L’isola, ex carcere di massima sicurezza da cui era impossibile scappare, è ora infestata dalle zecche, che mettono in fuga i turisti. Un autentico contrappasso che fa tornare la mente alle dolenti espiazioni dei Papillon nostrani. E certi ormai remoti reportage immaginari. Ad esempio il mio.

In quella redazione locale gaudentemente indolente e un po’ canagliesca (bonariamente parlando, sia chiaro), nella quale subito mi fiondai per avere notizie di prima mano, ne ridevano tutti. A denti stretti, sì. Ma di gusto, tra una sigaretta e un piatto di polpo all’elbana, quello coi pinoli. A Portoferraio di voci su ciò che accadeva e in passato era accaduto a Pianosa, isola-carcere a quei tempi, metà anni ’90, patria dell’art. 41 bis e perciò di mafiosi, criminali pericolosi e brigatisti, ne circolavano infatti a bizzeffe.
E come sempre, nelle parole ciniche dei cronisti, il dramma si mescolava spesso al senso del grottesco, il dolore della pena allo sberleffo.
Così, presto si affollarono sul mio taccuino le storie di Raoul Ghiani trasformato in tecnico tv e del giro di donnine allegre che, camuffate da addolorate mogli dei carcerati, erano invece destinate a ravvivare le giornate indubbiamente noiose delle guardie, di qualche detenuto più uguale degli altri e, chissà, magari anche del direttore. C’era poi la vicenda della barca col doppio fondo per nasconderci dentro il pesce pescato con gli esplosivi, cosa ovviamente proibitissima, e tutta una serie di altri gustosi episodi che, in una assolata giornata di giugno, mi dettero abbondante colore per tinteggiare il reportage immaginario che mi era stato richiesto. Un reportage da Pianosa, cioè. Dove mettere piede era allora praticamente impossibile, tranne che con i ceppi. E dove il Parco dell’Arcipelago Toscano era ancora ben al di là dal venire.
Naturalmente l’aneddotica era la foglia di fico per parare le sordide storie di morte e di sangue nascoste dietro il muro di cemento alto sei metri e lungo tre km fatto erigere, per separare il mondo libero dal non, dal generale Dalla Chiesa.
Da allora ho sempre seguito con simpatia le vicende di questo lembo di terra pianeggiante in mezzo al Tirreno. Talmente pianeggiante (donde il nome) da sembrare quasi un atollo. E mi sono interessato più volte alle tante ipotesi del suo riuso – così si dice – dopo lo smantellamento delle funzioni carcerarie, in un groviglio di burocrazia statale, vincoli incrociati e vorrei ma non posso: oasi ecologica, approdo per turisti vip, paradiso naturalistico, meta per cavallette in brache e ombrellone (leggi turismo di massa), fino alle più recenti, controverse velleità di ripristino, ma stavolta in chiave “sociale”, della mai dimenticata prigione.
Tutto mi è tornato in mente in questi giorni, quando ho letto sul Corriere Fiorentino (qui) un articolo dell’amico Marco Gasperetti che diceva più o meno questo: l’isola, a causa dell’abbandono e della mancata disinfestazione per scarsità di fondi, è talmente infestata dalle zecche che i (pochi, perchè contingentati) turisti devono letteralmente scapparne.
Impossibile non cogliere l’aspetto beffardo della notizia. Le suggestioni si moltiplicano. Di visitatori che fanno la coda per andare dove nessuno voleva e donde sono giocoforza costretti a fuggire. Di quando le “zecche” erano i galeotti e la loro vita si consumava lentamente tra le attività della colonia e la patina scivolosa del salmastro. O di quando lo scattare secco e metallico delle serrature, il tintinnare delle chiavi, lo sbattere dei pesanti portoni scandiva il tempo del carcere duro, in un effetto così stridente coi suoni morbidi del mare e del vento.
Ma la cosa più paradossale è quella che, già ai tempi del mio primo articolo, molti temevano. E cioè che la fine del carcere avrebbe rischiato di essere anche l’inizio della fine dell’isola, del suo vero abbandono nella classica, “necessitata” sinecura all’italiana.
Alla fine, la morale è questa: a Pianosa si stava meglio quando ci stavano peggio.