L’hanno detto in milioni, lo ripeto anch’io: c’ero. Ovvio, ogni anno mi torna in mente. Ma da allora, solo questo 11 luglio coincide di nuovo con la finale dei mondiali di calcio. Anzi, con la finale dei mondiali di calcio, quella di Italia-Germania 3-1 del Mundial spagnolo. Una data simbolo non solo per chi ha nostalgia della propria gioventù.

Inutile girarci intorno: impazzimmo tutti e la corsa di Tardelli ci rimase per sempre scolpita nella mente, aere perennius. Un po’ perchè eravamo giovani, un po’ perchè era il primo titolo conquistato nell’era moderna del calcio, un po’ perchè nessuno se lo aspettava, un po’ perchè nessuno pensava, in un’Italia così povera di autostima, che comunque avremmo potuto farcela, un po’ perchè i tedeschi non videro palla, un po’ perchè avevamo fatto fuori Argentina e Brasile (la Polonia non la prendemmo neppure in considerazione), un po’ perchè per la prima volta eravamo simpatici a tutti, un po’ perchè dopo Mexico ‘70 e Italia-Germania 4-3 non c’erano stati altri epici acuti, un po’ perchè era un calcio diverso, meno diluito quotidianamente come adesso, e gli articoli si leggevano solo la mattina e una volta sola sul giornale, un po’ perchè nemmeno gli infortuni di Antognoni e Graziani ci fermarono e anzi forse ci resero più forti, un po’ perchè rivisto oggi era un calcio meno veloce ma più bello e tatticamente niente affatto più sprovveduto, semmai più elastico e duttile (l’azione che portò all’indimenticabile gol di Tardelli – vedi qui – fu iniziata da Paolo Rossi che rubò palla a Breitner sulla nostra tre quarti), un po’ perchè l’ebbrezza di vincere un mondiale era sconosciuta a tutti tranne che agli ultracinquantenni, un po’ perchè stava crescendo una generazione di italiani meno complessati e per la prima volta un po’ orgogliosi, sarà perchè uscivamo dal decennio di piombo e tutto pareva fosse (e magari era) liberatorio, un po’ perchè quella P38 sugli spaghetti in copertina di Der Spiegel non l’avevamo mai digerita, un po’ perchè grazie al Mundial presero a rifare capolino nelle coscienze certe nozioni arcaiche e sbeffeggiate da decenni come patria, bandiera, nazione, un po’ perchè eravamo tutti increduli ed era bello leggerselo in faccia l’un l’altro, un po’ perchè finalmente fu possibile fare un corteo di gente felice e coesa, senza slogan nè rivendicazioni (cosa all’epoca impensabile), un po’ perchè, nell’euforia, tutto pareva essere la premessa di una svolta e di un futuro radioso, un po’ perchè ogni cosa, ogni passo di quell’avventura appariva magico, sorprendente e dolce come certe feste in famiglia ben riuscite e irripetibili, un po’ per mille altri motivi che adesso mi sfuggono perchè premono con troppa urgenza alle porte della mia mente.
Ecco, ora che il torrente ha un po’ rallentato, rileggendo mi accorgo di aver scritto un sacco di banalità e me ne scuso con tutti voi.
Lo so, lo so che ci autoaccusiamo (forse a ragione) di trovare il senso dell’italianità solo davanti alle partite di calcio, che ci facciamo sempre facilmente blandire con panem et circenses, che il patriottismo pedatorio è un patriottismo di serie B o C o di interregionale, che le effimere glorie del pallone sono l’oppio della gente, bla bla bla.
Tutto vero.
Lasciatemi però una convinzione: si tratta di banalità condivise, comuni. E che nessuno dei lettori di questo blog stasera, alle 20.30, potrà fare a meno di ripensare all’ora fatale di quell’11 luglio 1982 in cui in milioni, senz’aria condizionata, con un’insalatiera di spaghetti tricolori o di insalata di riso fatta in casa, la bandiera cucita dalla mamma appesa alla finestra, si accinsero di fronte alla tv per sentire Nando Martellini che diceva “Gentili telespettatori buonasera…”. Fu la sera che, divenuta notte, ci fece ripetere per tre volte, con lui, “campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo”. Sfido chiunque a non emozionarsi. E a non essere felice di essere banale.