All’Accademia dei Georgofili ho coordinato una giornata sul delicato rapporto tra mondo agricolo e informazione. I risultati? Interessanti. Come i sassi lanciati in piccionaia. Uno tra tutti: fuori l’agricoltura dai giornali di moda e tempo libero.

 

Cosa ha fatto di male l’agricoltore per essere considerato addirittura un apostata?
E che cosa ha fatto di male l’agricoltura per non godere di una buona stampa?
Nulla, ovviamente.
Infatti non è l’agricoltore ad essere “scomunicato“.
E nemmeno la stampa di cui gode l’agricoltura è cattiva. Casomai è assente. O distratta. O mistificante. Il che, si capisce, è spesso molto peggio di una cattiva stampa. E ciò, se perseverato, diventa diabolico.
L’idea di organizzare un evento – anzi, un incontro seminariale, come è stato opportunamente ricordato, visto che si svolgeva in un contesto altamente dialettico e tra addetti ai lavori – è stata del professor Luca Toschi, direttore del Communication Strategies Lab dell’Università di Firenze, il quale sta dedicando all’agricoltura, e al modo in cui essa si esprime o è rappresentata sui media, una serie di ficcanti indagini.
Intuizione brillante, capace quindi di trovare subito sponda nell’Accademia dei Georgofili, naturalmente sensibile all’argomento.
Da qui il mio coinvolgimento, in quanto giornalista del settore e presidente di Aset (qui) , l’Associazione della Stampa Enogastroagroalimentare Toscana che presiedo, come relatore e coordinatore della tavola rotonda prevista dal programma (qui).
Ne è emerso un tutt’altro che banale affresco del modo corrente di interpretare l’informazione e la comunicazione nel e sul settore primario, visto che per l’occasione sono stati chiamati a raccontarsi tutti gli esponenti della “filiera” giornalistica interessata: direttori di agenzie, giornalisti-accademici (o viceversa, fate voi), agrogiornalisti digitali, redattori di riviste specializzate, cronisti della carta stampata, responsabili di testate delle organizzazioni agricole, giornalisti economici, uffici stampa.
Le bordate maggiori sono partite, è naturale, proprio da Luca Toschi.
Che ha sottolineato come spesso, se vista dalla parte del lettore, l’informazione agricola risulti contraddittoria, incompleta, a volte autolesionistica, altre volte incomprensibile, talaltra inutile. Nei modi e nei contenuti. La rassegna di titoli sul caso Xylella raccolti dal suo CSL è stato illuminante. “Viviamo in un mondo sommerso dalla comunicazione eppure in agricoltura tutti si lamentano della mancanza di comunicazione. Sintomi dell’assenza di indirizzi e di una società disaggregata in cui il mondo agricolo è percepito sovente solo come un’area di privilegio“, ha rimarcato.
Ma pure i nodi messi in luce dagli altri interventi hanno contribuito ad aprire squarci nella muraglia di grigio – un grigio sospeso tra il conformista, l’iniziatico, l’onirico, il demagogico, l’aprioristico e l’ideologico – che spesso circonda l’agricoltura.
L’argomento meriterebbe una trattazione approfondita che non si può fare qui. E che tuttavia (in attesa del prosieguo della giornata, promesso ufficialmente dal presidente dei Georgofili, professor Giampiero Maracchi, al termine della seduta) provo a sintetizzare attingendo qua e là dai miei appunti.
Ne emerge una galassia quantomai variegata e niente affatto armoniosa, fatta di cose note e di altre meno note.
Dal nascente e un po’ inquietante trend del “farmtelling agricolo” a quello, parallelo, di un “farmer journalism” sulla falsariga del (a mio parere pericolosissimo!) “citizen journalism“, con tutti i suoi limiti e anche le praterie virtuose che esso potrebbe aprire se fosse utilizzato come fonte, anzichè come strumento di informazione. Dagli appelli affinchè “l’agricoltura esca dai giornali di moda e di costume e torni sulle pagine economiche” al problema dei costi dell’informazione agricola e delle risorse necessarie a sostenere una stampa di settore indipendente e attendibile. Dal giornalismo agricolo on line a quello cartaceo, con tutti i difficili passaggi del transito dall’uno all’altro supporto e soprattutto la loro convivenza, dalla formazione professionale dei giornalisti “specializzati” al tracimante cicaleccio sui social che tende ad azzerare la dialettica seria e tramuta ogni questione in litigi da bar privi di fondamento tecnico-scientifico. Dai pericoli legati alle smanie (non di rado politiche) di musealizzazione di un paesaggio agrario ripropagato nel tempo in chiave estetica anzichè economica alla costante ed equivoca sovrapposizione tra i concetti di agricoltura e di ruralità. Il tutto favorito dal declinare inesorabile di quel “ripensatoio” di notizie e di scuola di giornalismo che erano le redazioni dei giornali.
E io?
Io mi sono attenuto all’incarico ricevuto.
Ho cercato di dirigere il traffico (intenso) tra i tanti relatori e ho detto la mia con un intervento che ha provato a disegnare la mappa, lo stato dell’arte del giornalismo agricolo di oggi. Spiegando cioè come in esso convivano, spesso non senza ombre, le figure del cronista economico e non, del critico enogastroetc, dell’ufficio stampa di enti e aziende del settore, dello specialista che ha per lettore l’agricoltore e non l’uomo della strada, del professionista formato e del principiante, del sedicente e del partigiano. Il tutto inframezzato da soggetti ancora privi di un profilo professionale definito ma che, via web, partecipano a e in qualche modo alimentano la circolazione delle notizie in materia di agricoltura.
Il tutto in un quadro non sempre tranquillizzante, visto che in Italia l’analfabetismo agricolo di ritorno, in una società che in mezzo secolo non solo ha dimenticato le proprie radici rurali, ma per vergogna ha ritenuto opportuno di rimuoverle con una sorta di autodamnatio memoriae, è una realtà tangibile. E che l’agricoltura funge, la maggior parte delle volte, solo come merce di scambio politico per il raggiungimento dei grandi accordi economico-commerciali internazionali o per creare slogan propagandistici.