In Italia nessuna norma che vieta l’uso improprio di parole dal significato quasi istituzionale, come “museo”. Chiunque può aprire un bar o un negozio chiamandoli “museo”. Così il presidente Beni Italiani Unesco e sindaco di San Gimignano ha scritto al ministro Franceschini.

 

Ci sono cose che non sai ed altre a cui non pensi, anche se ogni giorno ci sbatti il naso.
Una me l’ha sventolata qualche settimana fa, a margine della confererenza generale dell’Icomos (l’International Council on Monuments and Sites dell’Unesco) in occasione del “G7 della Cultura” a Firenze, il sindaco di San Gimignano, Giacomo Bassi.
Bassi è anche presidente dell’Associazione Beni Italiani Patrimonio Mondiale Unesco.
La sua è stata una vera e propria denuncia: “In Italia – ha detto – non esiste alcuna norma che regoli l’uso della parola “museo“. Chiunque può così utilizzarla, legittimamente, per indicare e quindi anche per pubblicizzare qualunque cosa, dalla Galleria degli Uffizi alla più volgare impresa commerciale. Nessuno, insomma, può vietare o impedire a chicchessia di usare il termine in modo pur culturalmente improprio, come invece accade ogni giorno. Nella mia città, ad esempio, che ha musei ricchissimi di opere straordinarie, ho anche tre “musei della tortura” che ovviamente musei non sono affatto. Sono esercizi commerciali e anche di dubbio gusto, ma che hanno il diritto di esistere e a cui io, come amministratore, non posso negare l’autorizzazione. E il turista se li trova reclamizzati, tra le maglie della comunicazione, come attrazioni culturali al pari di monumenti, gallerie, pinacoteche“.
Questa sorta di legittimazione lessicale, o di sdoganamento dialettico – ecco il messaggio di Bassi – contribuisce non poco alla disneylandizzazione dei nostri luoghi d’arte, sempre più presi d’assalto da turisti cafoni, disinteressati alla cultura e attratti invece dalla cartapesta, il bivacco, i graffiti. “A causa del massiccio calpestamento – esemplifica il sindaco – a San Gimignano si ridipingono le strisce pedonali quattro volte all’anno, quando il ciclo normale sarebbe di una volta ogni quattro anni”. Praticamente c’è un consumo sedici volte più intenso della media, dovuto all’approdo di 18mila (diciottomila) pullman turistici nell’arco degli otto mesi dell’alta stagione.
La questione terminologica mi pare comunque fondata e non sarebbe peregrino se il codice dei beni culturali se ne occupasse.
Non mi sono preso la briga, lo ammetto, di compulsare le pandette per verificare se davvero le leggi italiane non prescrivano l’obbligo di un uso non ingannevole o improprio del termine “museo”, ma mi parrebbe strano se il primo cittadino sangimignanese mi avesse raccontato una balla così colossale.
Quindi, salvo verifiche, mi fido di lui.
Anche perchè, ha aggiunto Bassi, sulla faccenda è già stata sensibilizzata il sottosegretario Ilaria Borletti Buitoni, che condivide la necessità di una disciplina dell’uso del termine, e mesi fa stata pure inviata in proposito perfino un’espressa richiesta al Ministro dei Beni Culturali, Dario Franceschini.
Il quale, però, finora non ha risposto.