La corsa senese che si corre oggi è ufficialmente dedicata al 150° dell’Unità d’Italia. Ma sarà la carriera del cavallo morto ieri in Piazza del Campo. E, in pectore, del romanziere scomparso proprio 50 anni fa, a cui la festa senese sarebbe comunque piaciuta.
Non credo che Ernest Hemingway si sia mai occupato, né che abbia mai assistito, al Palio di Siena. Ma sono certo che se lo avesse visto gli sarebbe piaciuto. E, chissà, magari invece che alla corrida avrebbe fatto ruotare Fiesta, il suo romanzo del 1926, proprio attorno alla vibrante corsa senese, affascinato dal calore polveroso, dai cavalli sudati, dal ghigno dei fantini, dai nerbi alzati per colpire, dall’urlo della folla, dal senso di cospirazione e di guerra che impregna l’aria, dalla tensione spasmodica che incurva gli uomini, dai toni fugacemente omerici di un agone destinato presto a trascolorare, secondo il caso, in irrefrenabile festa popolare o ad assumere le tinte tragiche di una cupa disperazione collettiva. Un avvenimento fisico, confusamente pagano, infinitamente umano anche nei suoi paradossi, nei suoi parossismi, nei suoi stessi limiti.
Quello che si corre oggi, dedicato ufficialmente al 150° dell’unità d’Italia, cade anche nel 50° anniversario della morte dello scrittore americano. E sarebbe stato bello se l’immaginario avesse potuto cullare, celebrandole, le emozioni che la carriera e il romanziere sarebbero state capaci di regalarsi virtualmente l’un l’altro. Di qua l’autore disincantato e cosmopolita, capace però di calarsi nel profondo dell’avventura. Di là il potere elettrizzante del Palio, con il suo esotico fascino plebeo, sospeso tra latinità e suggestioni di medioevo.
Invece sarà il Palio di Messi.
Non l’asso argentino del Barcellona, ovviamente, ma il cavallo della Chiocciola morto ieri mattina durante la quarta prova, dopo un urto violentissimo e imprevedibile contro le barriere all’interno della curva di San Martino. Quasi un suicidio, è stato detto, se l’etologia prevedesse il suicidio degli animali. Ma non lo prevede. Dei cavalli, almeno.
E di questo incidente la città non sa darsi pace, come di un fantasma che in ogni attimo aleggia sul proscenio, fa capolino tra le trifore, inquieta le stalle dove i barberi riposano, increspa il vino nei bicchieri dei brindisi. Poco contano – chi conosce i senesi lo sa – i pur furibondi attacchi della stampa, del ministro Brambilla, degli animalisti, del Codacons. Ad acuire l’intima angoscia di ogni contradaiolo, e non solo quella dei chiocciolini, sta il vuoto provocato da quell’impatto così assurdo, innaturale. E dallo sbigottimento generale, poi tramutato in sgomento, per la morte del vero protagonista della corsa, il simbolo della mano del destino che sta tutto in quell’espressione “dato in sorte” con cui si designano, appunto, i cavalli assegnati per sorteggio alle contrade. Non ci sono simulata indifferenza o dissimulato dolore in grado di velare il senso di smarrimento che, in questo giorno, avvolge la città.
Una città che, nella sua misteriosa contraddizione emotiva, oggi sarà però anche capace di festeggiare, di celebrare, di gioire e piangere per il vincitore o per l’effetto catartico di una corsa per certi aspetti così vicina, antropologicamente parlando, alle antiche rappresentazioni tragiche delle agorà elleniche, figlia della medesima coazione e della medesima immedesimazione. Di una comunità ancora destinata a rimanere – a dispetto della cultura corrente e della mistica del villaggio globale – una realtà conchiusa (vedi qui).
La stessa immedesimazione fatta di sudore e polvere che sarebbe piaciuta a Hemingway, nonostante il lutto e forse a prescindere da esso. Un lutto anticipato forse, in un suggestivo esercizio di fantasia, dai presagi infausti che col facile senno di poi si potrebbero leggere nel “cencio” dipinto da Tullio Pericoli: con quello scorcio di Piazza del Campo ritagliato proprio sulla curva di San Martino e quei barberi in corsa che eiettano fiamme di un rosso tanto vivo e schizzante da assomigliare al sangue. Chissà. Hemingway avrebbe potuto scriverci davvero un bel romanzo.