Riceviamo da un montalcinese doc, che chiede di non essere menzionato, una lettera in cui si elencano i motivi di carattere strettamente tecnico-agronomico per i quali l’ex ad di Banfi sarebbe oggi la persona meno adatta a guidare l’associazione dei produttori. Non trattandosi di uno scritto anonimo e contenendo non opinioni ma, a detta dell’autore, “solo fatti noti e ben verificabili”, la pubblichiamo, offrendola al giudizio del lettore come la testimonianza che tra le vigne del Brunello le acque sono agitate e che, forse, i giochi non sono del tutto conclusi.

Come più di un collega ha notato da tempo, mi ero finora accuratamente astenuto dal commentare quello che è senza dubbio uno dei casi enologici più “caldi” di questi giorni: il rinnovo delle cariche del Consorzio del Brunello di Montalcino.
Il mio silenzio è dipeso da varie ragioni:
1) l’inizio del processo (e il successivo svolgimento) per la cosiddetta Brunellopoli, che inizierà a metà settembre e vedrà come imputati gli inquisiti che hanno preferito non patteggiare, potrebbe avere, seppure indirettamente, qualche effetto destabilizzante sugli equilibri enopolitici di Montalcino.
2) la nomina del Presidente, cioè della figura che detterà per davvero la linea politica e programmatica del sodalizio, avverrà il 3 giugno e l’elezione dei 15 consiglieri destinati ad esprimerla non era di per sè notizia eclatante o meritevole di particolari considerazioni.
3) le due candidature alla presidenza finora note – il cavalier Ezio Rivella e Donatella Cinelli Colombini – avevano sì fatto un po’ discutere giornalisti e appassionati, ma assai meno produttori e montalcinesi, impegnati probabilmente a tessere la tela degli accordi oppure (ma le cose non è detto siano alternative) a tenere ben strette per sè opinioni di cui in futuro qualcuno potrebbe chiedere loro conto.
Ora però, che al giorno fatidico manca poco, improvvisamente qualcosa si muove. E un montalcinese doc, che chiede di restare anonimo ma appare assai bene informato, mi manda la lettera che segue.
Specifichiamo: primo, non è una lettera anonima. L’autore si firma, chiede solo di non essere rivelato. Secondo, le sue affermazioni non sono calunnie gratuite ma opinioni su fatti che, a suo dire, “sono noti e indiscutibili”.
Comunque la si pensi, una cosa è certa: nella terra del Brunello il ritorno alla ribalta di Ezio Rivella qualche mal di pancia lo provoca. Vediamo ora che succede.
Ecco il testo integrale della missiva.

“Leggo con stupore l’articolo del cavalier Ezio Rivella sul Corriere di Siena (del 25 maggio, ndr) e chiunque abbia vissuto quegli anni a Montalcino non può che rimanere esterrefatto quando legge la sua affermazione che “se c’è qualcuno, con idee innovative, e che meglio sa interpretare le dinamiche attuali dei mercati e le tendenze enologiche più moderne, sarò ben lieto di farmi da parte”. Il cavaliere è indubbiamente un grande personaggio e ha fatto cose importanti nel resto del mondo, ma su quanto realizzato qui a Montalcino c’è molto da discutere. Vorrei dare un elenco oggettivo e non fazioso di alcune sue imprese da cui si può trarre un’idea sulla capacità del cavaliere di “innovare” e “interpretare le tendenze enologiche più moderne”. È venuto qui all’inizio degli anni ’80 con l’intento dichiarato di produrre non Brunello, ma bensì un vino bianco dolce a bassa gradazione da realizzare su scala enorme. Una versione dell’antico Moscatello di Montalcino nata dalla sua capacità di “interpretare le tendenze enologiche più moderne”; su questa sola base, e senza alcun esperimento su piccola scala per testare il mercato, ha realizzato oltre 200 ettari di vigne di moscato bianco e una cantina dotata delle speciali attrezzature necessarie. Il più grande investimento della storia del vino che ha dato come solo risultato poche migliaia di bottiglie vendute. Oltre a quel moscato ha impiantato oltre 400 ettari di ogni possibile varietà di uva bianca o rossa, praticamente di tutto tranne quel sangiovese che già allora ogni produttore locale aveva capito essere l’unico vitigno capace di produrre vini vendibili a Montalcino. Anche qui spese colossali, basate solo sulla sua “capacità di interpretare le tendenze enologiche più moderne” invece che su esperimenti su piccola scala. Risultati? Assolutamente sproporzionati all’investimento. La stessa cosa si può dire del peach wine o del vino dealcolizzato, altri enormi sforzi economici fatti per seguire supposte ”tendenze enologiche più moderne” che si sono rivelate solo costose strade senza futuro. Il paradosso di tutta l’avventura montalcinese del cavaliere è che l’indubbio successo economico e di immagine di Villa Banfi è venuto non da questi costosissimi buchi nell’acqua fatti per seguire la sua “capacità di interpretare le tendenze enologiche più moderne”, ma bensì da quel vecchio e caro Brunello inventato da altri che per tanto tempo aveva snobbato, e di ciò che è accaduto quando ha voluto “innovarlo” è meglio tacere. E vogliamo parlare del fatto che per anni ha realizzato tutti i nuovi impianti di sangiovese non con il collaudato cordone speronato ma bensì con un sistema di impianto che riteneva seguire le ”tendenze enologiche più moderne”, quel Casarsa che è nato per produrre il lambrusco in val Padana? Questi vigneti realizzati in quantità prima di aver fatto esperimenti su piccola scala si sono rivelati inadatti a far maturare l’uva nei colli alti di Montalcino, che hanno notoriamente un clima molto diverso dalla bassa reggiana. Eppure ancor oggi, dopo tutto quello che è accaduto, la sua “capacità di interpretare le tendenze enologiche più moderne” lo ha portato a usare solo vitigni stranieri nella sua azienda di Pian di Rota anche se ormai è evidente anche a chi sa poco delle “tendenze enologiche più moderne” che i super Tuscan e simili sono divenuti invendibili. Da un lato è un esempio ammirevole di coerenza, ma dall’altro denota poca o nulla capacità di adattamento al mondo che cambia. Non voglio fare pettegolezzi o copiare il vile che ha appena diffuso una lettera anonima grondante malignità e falsità, questi sono solo fatti noti e ben verificabili. E i fatti dicono che quando il cavaliere ha seguito la sua “capacità di interpretare le tendenze enologiche più moderne” ci sono stati seri problemi. Chi mai comprerebbe quelle centinaia di ettari senza un filo di sangiovese? E quei costosi macchinari finalizzati a vini che non hanno mai avuto mercato? Ho grande stima per l’intelligenza del cavaliere, dimostrata sia da quanto ha fatto fuori Montalcino che dalla sua straordinaria capacità di far dimenticare ogni passo falso, ma chiedere ai viticoltori montalcinesi di eleggerlo a loro guida sulla basa della sua “capacità di interpretare le tendenze enologiche più moderne” per non parlare delle “idee innovative” è come affidare ad un cieco una scuola guida”.