Arrampicate dialettiche, assessori che litigano, agricoltori in subbuglio: ecco il risultato del provvedimento che, imponendo al territorio 365 nuovi vincoli paesaggistici, rischia di “ingessare” la campagna più famosa del mondo.
Un minaccioso spettro burocratico aleggia da qualche mese sulla campagna toscana.
Si chiama Piano Paesaggistico. Fu approvato, senza troppi clamori, lo scorso 18 gennaio. Ha covato sotto la cenere per qualche mese. E poi, con balneare puntualità, è stato pubblicato (qui) sul BURT, la Gazzetta Ufficiale della Regione, lo scorso 16 luglio.
Da allora ha circolato sotto traccia ma con sempre maggiore allarme, protetto in parte dalle dimensioni (3mila pagine!), in parte dall’osticità dell’argomento e dalla densità degli enunciati, in parte dalle ferie in corso. E in parte, credo, dall’incredulità che certi suoi contenuti sollevavano tra gli addetti ai lavori.
Poi, quando si è capito che era proprio tutto vero, si sono aperte le cateratte. E sulla Regione hanno cominciato a piovere le proteste del mondo agricolo. A cominciare dai settori più potenti, cioè i produttori di vino e i loro consorzi di tutela.
Sì, perchè scaduti i termini (il 29 settembre) per le osservazioni da parte di chi ne abbia interesse, il piano diventerà legge. E coprirà l’intero territorio con 365 vincoli, uno al giorno, “raccomandando” ai sindaci di negare o limitare l’autorizzazione a una serie infinita di attività spesso indispensabili per l’esercizio dell’impresa agricola – come il reimpianto dei vigneti obsoleti, i miglioramenti fondiari, etc – qualora vedano in essi quelle “minacce” all’ecosistema che il piano stesso, con inesorabile puntualità, suggerisce. In pratica, un “invito” a proibire. Nel quale gli imprenditori individuano un vero e proprio attentato alla redditività di un settore già in difficoltà, un ostacolo all’esercizio dell’impresa e un contraddittorio impedimento allo sviluppo di una delle più fiorenti voci del made in Tuscany: l’agroalimentare.
Dall’altro lato della barricata, la Regione.
Che per bocca del presidente Enrico Rossi, dell’assessore all’ambiente Anna Marson e di quello all’Agricoltura, Gianni Salvadori, tenta di buttare acqua sul fuoco e di rassicurare gli agricoltori dicendo che il piano non prevede “vincoli”, ma solo “consigli” per il mantenimento del paesaggio. Un fronte in cui però si aprono crepe dialettiche, rivelatrici di varie divergenze.
“Sono qui per ascoltare“, ha dichiarato giusto oggi Rossi incontrando il marchese Lamberto Frescobaldi. “Semplificheremo il linguaggio e quant’altro sia da semplificare. Agevoleremo le aziende negli interventi necessari per rimettere a coltura terreni abbandonati da anni e riconquistati nel frattempo dal bosco. Si calcolano che potrebbero essere tra i 100 e i 200 mila ettari, un decimo di tutta la regione. Lavoreremo – ha aggiunto – affinché le raccomandazioni del piano, direttive e non vincoli, siano chiare e recepite in maniera omogenea dai territori. Ma sono sicuro che alla fine riusciremo a fare un bel lavoro“.
Sarà. Ma il nodo sta nell’interpretazione da dare ai “consigli” del PPT.
“Il problema del piano è il suo indirizzo culturale, che non riguarda solo il vino ma tocca anche gli altri comparti“, aveva dichiarato giusto questa mattina a La Nazione l’assessore Salvadori. “Prima afferma che l’agricoltura è una grande opportunità e una risorsa per la Toscana, poi elenca le criticità del settore. Siccome tutto il testo diventerà legge, si rischia di generare confusione e contraddizioni. Le criticità non sono prescrizioni, ma rischiano di diventarlo applicando il piano“.
Il pericolo di un’interpretazione restrittiva, se non ideologica, delle “raccomandazioni” è insomma evidente.
Ed è questo che tutti gli agricoltori toscani temono.
Soprattutto se si vanno a leggere gli intenti illustrati dal governatore Rossi e l’assessore Marson al momento in cui il piano fu approvato, in gennaio.
“E’ un piano ciclopico – diceva il primo – che stabilisce regole più precise per tutelare il nostro territorio e garantire il buon governo delle possibili trasformazioni. Riduce la discrezionalità sugli interventi con l’obiettivo di evitare speculazioni ed ecomostri e tutelare il carattere di bene comune del nostro paesaggio. Un paesaggio che è tutelato sulla base di 365 vincoli per decreto e di quelli della legge Galasso, che insieme coprono oltre il 60% del territorio. Questo ci consentirà di lasciare in eredità alle future generazioni una regione ancora bella e attraente“. Mentre il secondo spiegava che il piano “approfondisce la conoscenza, l’interpretazione e la rappresentazione dei paesaggi presenti sull’intero territorio regionale, codificandone gli obiettivi di qualità da garantire nelle trasformazioni. L’insieme dei suoi elaborati consente di superare pareri eccessivamente discrezionali, a favore di un insieme di regole pubblicamente deliberate e condivise, capaci di indirizzare le trasformazioni verso il buon governo del paesaggio. A differenza degli altri strumenti di pianificazione regionale, concepiti come strumenti di prevalente indirizzo di un’attività comunale in buona misura autonoma, il piano paesaggistico, ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio, e dei suoi contenuti “copianificati” con il Ministero competente, è un piano sovraordinato cui sono tenuti a conformarsi gli altri piani e programmi di livello regionale e locale“.
Da un punto di vista tecnico l’argomento è molto complesso e non può essere sviscerato qui. Almeno ora. E non mancano argomenti a favore dell’uno o dell’altro orientamento.
Ma ci sono un paio di cose che vanno rimarcate.
La prima è che il Pit sembra nelle sue premesse vagheggiare un ritorno a quel “mondo antico” – vogliamo chiamarlo prebellico, mezzadrile, contadino, rurale? – che con cinquantennale, ideologico e spesso cieco accanimento le amministrazioni toscane hanno lottato per distruggere, sradicandone tanto le fondamenta socioeconomiche quanto quelle culturali. Salvo scoprire adesso, quando è tardi, che almeno paesaggisticamente si stava meglio quando si stava peggio.
La seconda è che è abbastanza paradossale che le stesse amministrazioni responsabili, per le ragioni dette, della nascita dei copiosi “ecomostri” presenti sul territorio regionale varino oggi dei regolamenti per impedire il ripetersi di quanto esse medesime hanno consentito.
La “guerra delle vigne“, come è stata definita, sembra comunque appena cominciata.