Magari è stata pretattica, ma dal ricco parterre del congresso di Anso sull’equo compenso le novità emerse sono state quasi zero. Molti discorsi (solo qualcuno condivisibile), alcune persistenti confusioni concettuali e un latente pessimismo.
Se usciste da un convegno di cui avete condiviso così poco che le uniche persone con le quali vi siete trovati d’accordo sono quelle con cui, abitualmente, siete in disaccordo pressochè su tutto, sareste contenti?
Io no.
Infatti non ero contento uscendo ieri dal convegno su “Contratto e equo compenso: e se i conti non tornano?” organizzato al Mugello in seno al congresso dell’Anso, l’Associazione Nazionale Stampa On Line.
Eppure le aspettive (qui) erano forti, visto un parterre di relatori di tutto rispetto: Francesco Iannelli (Consigliere e Capo Ufficio per il sostegno all’editoria Dipartimento per l’informazione e l’editoria Presidenza del Consiglio dei Ministri), Primo Salani (Presidente Mediacoop), Giovanni Rossi (Presidente Fnsi), Pino Rea (Consiglio Nazionale Ordine dei Giornalisti) e Betto Liberati (Anso). Convitato di pietra la Fieg: l’annunciato direttore generale Fabrizio Carotti non si è presentato. Cosa singolare, se si pensa che gli editori on line sono piuttosto agguerriti (giustamente, dal loro punto di vista) sulla questione della rappresentanza in seno alla commissione per l’equo compenso.
Insomma l’evento nasceva un po’ zoppo. E poi si è presto arenato per mancanza di materia prima: infatti si è parlato poco o nulla sia di questioni contrattuali, sia di equo compenso.
Anzi un po’ si è parlato. Ma a sproposito.
Ecco, in sintesi, come.
Salani ha chiesto: che tavolo è quello sull’equo compenso? Qual è la sua natura? Segna il passaggio dalla contrattazione individuale a quella collettiva anche per il settore del lavoro autonomo? E allora perchè per i giornalisti si è fatta una legge ad hoc e per altri lavoratori autonomi no?
Rossi: la legge sull’equo compenso nasce da una situazione di mercato patologica e presenta alcuni problemi tecnici (è “a termine” – la commissione dura solo tre anni – e prevede sanzioni che interessano realmente solo il 10% del mondo editoriale, quella che attinge a contributi pubblici), ma costituisce un’opportunità per giungere a una soluzione concordata della questione. Con l’introduzione dell’equo compenso migliaia di soggetti saranno espulsi dal sistema, ma questo è ciò che anche l’Fnsi vuole, perchè il giornalismo non può assorbire la pressione esterna a cui è sottoposto da chi, erroneamente, scambia le opinioni da “citizen journalism” per informazione e dà vita a un mondo in cui la metà degli iscritti all’OdG non lo è all’Inpgi, quindi di fatto non lavora. Quanto alla commissione, dubito che riuscirà a produrre un tariffario (sic!), al massimo individuerà criteri economici a cui fare riferimento.
Rea: in Italia gli iscritti all’Odg sono circa 115.000, di cui 12.000 nell’elenco speciale. Ne restano 103.000. Di questi 30.000 sono professionisti, 72.500 pubblicisti e qualche centinaio praticanti. Ma attenzione: oltre ai giornalisti, per l’OdG bisogna proteggere il giornalismo. Che non consiste nella sola scrittura, ma nel processo di costruzione dell’informazione: raccolta, contestualizzazione, verifica, editing, etc. In nessun caso, comunque, la “visibilità” può essere la moneta con cui pagare chi lavora.
Liberati: giusto il concetto di equo compenso, ma sbagliata una legge che introduce tariffari (arisic!) ed è sbilanciata contro gli editori, ai quali impone oltretutto una rappresentanza ridotta rispetto all’ampiezza del sistema. Come Anso siamo favorevoli a una regolamentazione contrattuale del nostro settore e ne stiamo parlando con l’Fnsi, ma senza questa come si fa a dire cosa è “equo” nell’on line, dove spesso, ad esempio, la figura dell’editor e del giornalista si sovrappongono?
A Iannelli il difficile compito di tirare le fila, con abile cerchiobottismo. Innanzitutto non era scontato, ha detto rispondendo all’Anso, che tutte le tipologie di editori fossero ricevute e ascoltate: forse sarebbe opportuno che discutendo tra loro trovassero ora un criterio di rotazione all’interno della commissione. Si può poi anche discutere sul fatto che l’art. 36 della Costituzione si applichi al lavoro autonomo. Ed è vero che la legge sull’equo compenso presenta punti di debolezza, ha aggiunto. Ma si tratta di un’opportunità da cogliere per porre rimedio a una situazione patologica legata da un lato alla precarizzazione del lavoro giornalistico e dall’altro alla crisi economica del sistema editoriale. Bisogna guardare al futuro, non al passato. Sono però pessimista sulla reale possibilità di arrivare a un “tariffario” (aririsic!) vero e proprio, che probabilmente verrebbe impugnato dalla parte scontenta.
Per il resto si è saltabeccato dall’omesso pagamento dei contributi previdenziali alla qualità dell’informazione, dalla crisi Rcs al citizen journalism, dai mansionari del giornalismo via web alla tutela della proprietà intellettuale dei contenuti dell’on line.
Ora, una cosa è certa: se perfino coloro i quali dovrebbero essere i protagonisti, anche fisici, della trattativa sull’equo compenso non hanno le idee chiare su cosa fanno e dove devono arrivare, al punto di dichiararsi preventivamente “pessimisti” sull’esito delle operazioni, c’è da mettersi le mani nei capelli. Sentire addetti ai lavori abbinare l’idea di equo compenso (cioè un minimo inderogabile garantito per legge, sul quale innestare poi la contrattazione individuale che è l’anima del lavoro autonomo) a quella di “tariffario“, è motivo di sgomento. Ascoltare il sindacato (sedicente “unitario”) che, anzichè pensare a riportare tutti i giornalisti, autonomi inclusi, nell’ovile naturale del pur incipiente ccnl, vagheggia di aggirare il problema mestando nel torbido dell’equo compenso, senza neppure affrontare la trave della propria carenza di rappresentatività specifica (l’Fnsi riunisce appena il 7% degli autonomi, il resto dei quali è sindacalmente apolide), fa venire i brividi. Udire le pretese di certi editori digitali che, con la scusa della “liquidità professionale” vigente nel web, tentano di far passare l’idea che, nelle redazioni on line, il giornalista è, può e forse deve essere anche tecnico, grafico, pubblicitario, copywriter, aggregatore di notizie, webmaster e venditore (e viceversa), fa capire quanto lavoro ci sia ancora da fare. E altrettanto, su sponda opposta, fa pensare il caso, denunciato ieri, di un’ispezione Inpgi che ha sanzionato un editore scambiando per giornalista il webmaster della testata.
Tanto premesso, capirete come mai il coordinatore della commissione-ombra (qui) sull’equo compenso se ne sia andato dal sinedrio alquanto adombrato. E come mai il suo personale timore sia che, al termine di pur erculei sforzi istituzionali, la montagna partorisca un equo compenso topesco e di nessun effetto concreto.