Un po’ perchè il tira e molla parlamentare tuttora in corso mi ha (da tempo) del tutto disilluso sul buon esito della vicenda e un po’ perchè, ragionandoci, le ombre tendono a venire fuori, mi sto convincendo che il principio resti giusto, ma che il contesto generale ne possa rendere sconsigliabile la traduzione in legge. E voi?
Ripensandoci, i dubbi sull’equo compenso del lavoro giornalistico cominciano a venire anche a me.
Da quale parte sto è noto, ma da bravo giornalista ho provato a mettermi nei panni di chi è dall’altro lato della barricata. No, ma che avete capito, mica gli editori e i loro sodali in Parlamento. Mi riferivo al governo e alle sue perplessità.
E mi sono chiesto: ha senso garantire un compenso equo agli appartenenti a una categoria professionale l’ingresso nella quale non solo non ha nulla di equo, ma a volte è sostanzialmente illegittimo (in quanto non soggetto all’esame previsto per l’appartenenza agli ordini professionali, né alle pur teoricamente obbligatorie revisioni degli albi, valide anche per i professionisti)? E di cui quindi vanno a far parte, senza selezione alcuna, cani e porci, tutti portatori alla pari del famoso “tesserino”?
Già sapete, del resto, come la penso: se approvato e poi tradotto in pratica, con l’introduzione di soglie minime inderogabili, l’equo compenso non si tradurrà affatto in un “più soldi per tutti”, come masse di ingenuissimi colleghi si illudono avverrà, ma comporterà viceversa l’espulsione immediata e irrimediabile dal mercato di tutti quelli (e sono tanti) che, agli occhi dell’editore “obbligato”, non varranno il compenso imposto dalla legge.
Il che è anche giusto: se devo pagare una certa somma, avrò pure la libertà di scegliere a chi dare i miei soldi, no? Ed è ovvio che li darò a chi, a parità di compenso, è in grado di darmi il prodotto migliore.
Traduzione: farò lavorare e pagherò quelli bravi, non quelli che finora lavoravano solo perché mi si offrivano al ribasso (o gratis). E quindi i meno bravi, per non dire i numerosissimi incapaci che popolano l’albo professionale, cesseranno seduta stante di lavorare.
Insomma, selezione feroce.
Inoltre la Severino, nelle sue ultime osservazioni, aggiunge una cosa ragionevole: ha senso normare l’equo compenso quando, da un lato, esso è invocato da chi è titolare di un rapporto formalmente libero professionale mentre, dall’altro, dietro a tale rapporto si cela un rapporto di subordinazione? Ovvero: non è che sancendo l’equo compenso si ostacola l’emersione delle false partite iva e degli altri rapporti di lavoro fittizi, proprio mentre è in atto una riforma che tende a separare in modo netto, senza troppe figure intermedie, la posizione del dipendente da quella dell’autonomo?
Ecco, se mi spoglio della mia partigianeria professionale e mi metto nei panni del legislatore, a me questa cosa qualche dubbio me lo fa venire.
Il che non toglie, è ovvio, che l’eventuale naufragio del progetto di legge faccia il gioco della vasta e trasversale cricca editorial/sindacale che, non a caso, lo persegue con ogni mezzo.
Ma queste crepe di ordine logico si sono aperte solo per me? O anche per qualche collega?
La provocazione è lanciata, a voi la parola.