Gli autonomi si appoggiano a un sistema che, in teoria, avrebbe quattro pilastri. Solo uno dei quali però, quello deontologico, esistente e quindi (relativamente) affidabile. Il resto per ora è fuffa. Morale: si va facilmente a gambe all’aria, con buona pace dei proclami.
Ragionando ieri, a Firenze, tra i pochi intimi di una riunione dedicata all’equo compenso che invece doveva registrare il tutto esaurito, ci siamo malinconicamente interrogati su quali fossero le ragioni di una simile disaffezione dei colleghi su un tema così attuale e importante per il destino di tutti. E sul perchè la categoria degli autonomi sia così, non solo economicamente, derelitta.
La mia spiegazione è la seguente.
La professione giornalistica indipendente – intesa come attività produttrice di reddito, non come un hobby o una forma di masochistico, inconsapevole volontariato – è simile a una sedia.
Se la sedia ha le gambe, ti ci puoi sedere comodamente sopra. Se ne manca una, traballi. Se ne manca più d’una, vai per terra.
Ecco, esaminiamo una per una le gambe su cui si siede il giornalismo italiano freelance e dintorni.
La prima gamba è quella deontologica, rappresentata dalla Carta di Firenze (qui e qui). Una norma ordinistica, che obbliga alla solidarietà anche economica all’interno dell’intera catena di comando. In sostanza, essa afferma un principio di giusta remunerazione e considerazione del lavoro al quale tutti i giornalisti dovrebbero attenersi, a pena di sanzioni disciplinari. Insomma, la gamba c’è ma sostiene il peso della teoria, più che della pratica.
La seconda gamba è quella legislativa, ovvero la legge sull’equo compenso, da mesi a un millimetro dal traguardo dell’approvazione parlamentare e naturalmente, nonostante i proclami, ogni volta abilmente stoppata dalla lobby trasversale editorial/sindacale. E’ la normativa che obbligherebbe tutti a remunerare “equamente” (ferma la difficoltà nell’individuazione sostanziale del punto di equità) il lavoro giornalistico. Diciamo che la gamba è sbozzata ma ancora nella bottega del falegname. E gli artigiani, si sa, sono lenti a portare in fondo il lavoro…
La terza gamba è quella della professionalità, cioè dello spessore, dell’esperienza, della preparazione, della consapevolezza, del valore intrinseco del giornalista. E’ una gamba virtuale, ben salda nella mente di chi crede nell’egualitarismo aprioristico, ma spesso smentita nella sua esistenza materiale dalla realtà quotidiana. Sovente evocata in tempi di giornalistificio imperante, è la più insidiosa perchè spesso presunta e autoreferenziale: nel senso che si sostiene per sè, ma regge non il peso di cui è gravata.
La quarta gamba, infine, sarebbe quella sindacale. Uso il condizionale perchè qui non è nemmeno il caso di insistere sull’assenteismo cronico del nostro sindacato “unitario” (no comment) in materia di lavoro autonomo. Roba da ridere. O da piangere. Quindi è una gamba del tutto immaginaria, buona per i comizi e le fiaccolate, ma guai a farci affidamento, appoggiandocisi alla ricerca di un sostegno.
Morale, la gran sedia dei giornalisti autonomi italiani ha solo una gamba vera, ma dedicata alla teoria, un’altra che è ancora sul bancone di Mastro Geppetto, una terza tanto evocata quanto evanescente e una quarta che è impalpabile.
Insomma non ci resta che fare gli equilibristi. Oppure stare in piedi, che è meglio.
Stando però ben attenti che, come accade spesso, non ci chiedano poi di piegarci anche in avanti…