La “formazione continua” (altro che Zoff, Burgnich, Facchetti…”) è un business che ha infettato l’intera nostra società. Nel 99% dei casi serve a fingere di insegnare cose inutili a gente che fa finta di non saperle, ma è costretta a pagare corsi che ingrassano solo chi li organizza e li tiene. Ora tocca ai giornalisti.

Lo so: sarò reazionario, fascista, politicamente scorretto, oscurantista, qualunquista. Ma io lo dico lo stesso: i corsi di formazione sono una boiata pazzesca.
Tutti. O quasi tutti. Ed è una boiata pazzesca la fanfaluca della “formazione continua” a cui qualunque professionista, prima secondo i maître à penser e ora perfino secondo la legge, dovrebbe masochisticamente sottoporsi. Non solo dunque, come è ovvio, in età scolare, studentesche, di apprendistato. O volontariamente. No, sempre: a quarant’anni, cinquanta, sessanta. In pensione, perfino. Non è mai troppo tardi diceva del resto il compianto maestro Alberto Manzi, quando c’era la tv dei ragazzi e il tubo funzionava in bianco e nero.
Ma è proprio così?
La baggianata della formazione continua nasconde in realtà una cosa ovvia, implicita nella vita e dimostrata dall’esperienza: non si finisce mai di imparare. Bella scoperta. La cosa singolare è che ci debba essere sempre qualcuno a insegnarti. E che tu sia obbligato a subire i suoi insegnamenti. Pagandolo, pure.
Come un’epidemia di peste, il male della “formazione” e i suoi sintomi, cioè i corsi, si sono così capillarmente diffusi nel mondo. Dopo che qualcuno ne ha fiutato il business, va da sè.
Si è cominciato con la pubblica amministrazione, poi coi dipendenti privati, poi con gli operatori di ogni tipo. Cose fantastiche: corso obbligatorio dove si insegna agli impiegati di banca come si contano i soldi, ai pompieri come si usa l’estintore, agli agricoltori come si guida il trattore. Indimenticabile la campagna con cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità insegnava alla gente (qui) l’inafferrabile arte di lavarsi le mani (“…andare in bagno, aprire il rubinetto, prendere la saponetta, insaponarsi, strofinare, sciacquarsi, etc…”).
Ora il percolato del perfido effetto-formazione è arrivato al mondo delle professioni e quindi del giornalismo, attraverso la famigerata legge 148/2011.
E quindi la categoria, come se non avesse problemi più seri di cui (dis)occuparsi, si deve gettare a capofitto in una riforma (qui) che prevede, con relativo dibattito, pure la “formazione professionale continua” alla quale dovremo anche noi scribacchini sottoporci in futuro. A pena di sanzioni, si teme, severissime.
Come, nello specifico? Tornando a consumare le proverbiali “suole delle scarpe“? O in strada a fare inchieste? Cercando notizie invece di copiare le agenzie? Magari rifacendo periodicamente (perchè no?) l’esame di abilitazione professionale? Macchè. Accumulando “crediti“, che domande. Formativi, certo. E in che modo? Haha…ma frequentando corsi!
Per evitare a me stesso travasi di bile o convulsioni dal ridere vi rimando, per il dettaglio, al testo ufficiale della bozza di regolamento in 13 articoli che il sempre informatissimo collega Antonello Antonelli ha pubblicato (qui) sul suo blog, formulando anche una serie di giuste perplessità tecnico-legali. Io mi limito a riassumere, piluccando qua e là e sviscerando il senso del mio più vivo risentimento.
Sappiate però che la cosa è così seria che domani a Roma i presidenti degli ordini regionali si riuniranno per discuterlo.
Sia chiaro: non intendo con ciò minimamente irridere al lavoro dei colleghi (che anzi compiango) e neppure alle senz’altro buonissime ragioni del principio. Se c’è una legge, va rispettata e bisogna adeguarsi. Ma l’idea che uno che mastica il mestiere da decenni debba rimettersi sui libri a studiare cose magari scritte e spiegate da chi potrebbe essere suo figlio, fa un po’ specie. Se uno era un asino, mi verrebbe da dire, allora nell’albo professionale non ci doveva entrare. Ma se ci se ne accorge quando costui ha cinquant’anni e i suoi danni ormai li ha fatti, mi pare un po’ tardi per intervenire.
Sì, mi si obietta, ma la professione cambia, le tecniche mutano, la tecnologia si evolve. Non si può restare indietro.
Verissimo. Ma sono tutte cose alle quali potrei, anzi dovrei, adeguarmi con la pratica, non con la teoria dei corsi-di-cinquanta-ore-in-cui-le-ore-durano-45-minuti-e-alla-fine-ti-rilasciano-un-attestato-di-frequenza-che-dimostra-che-ti-sei-(ri)formato.
Eppure il grottesco va ben oltre.
Adeguandosi al metodo che ha travolto, con conseguenze irreparabili, le nostre scuole e le nostre università, il sistema prevede che la formazione avvenga attraverso l’acquisizione di “crediti”. Traduzione terra terra ma efficace: nessuno verifica che tu abbia davvero appreso, ti si fa “credito” di preparazione, ovvero si dà per scontato che tu, frequentando il corso (o tenendolo: vedi oltre), abbia imparato qualcosa.
Non basta, però. L’obbligo normativo vige fino ai 70 anni (!) e ricorre ogni tre. I crediti da acquisire sono 60 nel triennio (minimo 15 all’anno) e si acquisiscono partecipando a “eventi formativi“, come tali riconosciuti dall’OdG, tra cui “corsi, master e seminari”, facendo i “relatori” nei medesimi (mi insegno da solo? Boh…), pubblicando libri di argomento professionale o scrivendo articoli su riviste del settore, tenendo docenze accademiche sul giornalismo, facendo il commissario agli esami da giornalista, svolgendo attività di e-learning (cioè insegnamento a distanza) o frequentando corsi sull’uso delle nuove tecnologie.
Seguono complicati criteri di modulazione dei vari metodi di acquisizione dei crediti, di rilascio degli attestati, di controllo dell’adempimento degli obblighi, etc e altrettanto complicate norme di dettaglio su chi deve fare cosa, come, quando.
Su tutto, alla fine, aleggiano dubbi inquietanti. Che costi (di tempo e di denaro) comporterà per gli iscritti l’obbligo della formazione continua? Con quali concreti benefici? Come si eviterà la prevedibile corsa circolare dei giornalisti (visti anche i tempi che corrono) ad organizzarsi per tenere essi stessi corsi e lezioni, master e seminari destinati ai colleghi? Come si eviterà, anche disciplinarmente, il trattamento diverso di casi uguali, visto che molte funzioni vengono demandate agli ordini regionali?
E soprattutto: non era il caso di opporsi più vigorosamente a una norma demagogica come questa?
Insomma, il timore è che si farà tanta formazione per nulla, ci si dovrà ipocritamente arrangiare – esaminatori ed esaminati – per far quadrare le cose e rimarremo gli stessi ignoranti, sfigati, insicuri giornalisti di prima.
Ma il prof. Monti sarà contento e forse l’economia avrà “girato“.
Esattamente come i nostri attributi in questo momento.