E’ di scena mercoledì 25 il “Meeting dei Movimenti dei giornalisti precari italiani”, dove (da freelance) a sorpresa sono stato invitato ad intervenire, sei mesi dopo la “Carta di Firenze”. Ciò, per motivi oscuri, ha creato qualche polemica. Ma io ho accettato lo stesso.
La mattina del prossimo 25 aprile sarò a Perugia, tra i relatori (termine che invero poco mi si addice) di un incontro (qui) su libera professione e precariato giornalistico, nell’ambito del Festival Internazionale del Giornalismo. Una partecipazione, la mia, nata pochi giorni fa da una proposta estemporanea di Vittorio Pasteris (qui) e che ha anche dato vita a qualche (per me) incomprensibile polemica: stare volontariamente fuori da giochi, giochini, partiti, partitini, gruppi e amicizie ha con ogni evidenza un suo costo. Ma se il costo è non sapere cosa si trama dietro le quinte, lo pago volentieri.
Nella mia ingenuità, ho comunque dubitato parecchio se accettare l’invito.
Primo per la mia scarsa inclinazione alla diplomazia, che è pur necessaria in certi frangenti pubblici. Secondo perché, come chi legge questo blog ben sa, sono convinto che, nel nostro mestiere, a parte condividere il titolo genericamente inteso, il libero professionista e il precario siano quanto di più distante la professione possa offrire: mentre l’uno, il freelance, ha scelto la libertà da vincoli contrattuali come base fondamentale del proprio lavoro, l’altro, il precario (cioè il titolare di un contratto a termine) è uno che invece aspira ad essere assunto in pianta stabile e vive la temporaneità del rapporto come una sorta di deminutio capitis, di periodo transitorio o addirittura di torto vero e proprio. Paradossalmente, quindi, queste due figure così di frequente assimilate e perfino confuse dagli stessi addetti ai lavori sono non solo molto diverse, ma a volte pure concorrenti. Nel senso che spesso l’editore si trova proprio a dover scegliere tra assumere un giornalista a termine o ad affidarsi, per l’esecuzione del medesimo lavoro, a un libero professionista.
Il problema è che tra i due estremi “di scuola” si trovano anche mille casi intermedi: partite iva che nascondono rapporti di lavoro dipendente, abusivi, cocopro, precari soddisfatti, freelance di nome ma non di fatto, dopolavoristi e hobbysti, aspiranti giornalisti, sedicenti. Inclusi i tanti che sono una cosa ma pensano di essere un’altra o non hanno ancora capito con precisione che lavoro fanno.
Il grande merito dei precari, e la grande novità nell’asfittico panorama professionale della categoria, è stata la loro capacità di autorganizzarsi e di essere stati in grado, nell’ultimo biennio, di dar vita a un coordinamento trasversale che ha spiazzato i sacerdoti dei soliti, vieti rituali ordinistici e sindacali, attirando su di sé una forte attenzione mediatica.
Non altrettanto può dirsi dei freelance, ormai troppo pochi e economicamente troppo deboli (oltre che indecentemente scaricati dal loro presunto sindacato) per dare vita a qualcosa di unitario. Ma comunque coriacei.
In questo quadro è nato quasi per caso, dal basso, il movimento che ha dato vita alla “Carta di Firenze” (qui e qui), il manifesto deontologico approvato e fatto proprio dall’Ordine nell’autunno scorso come principio etico che vincola l’intera filiera professionale al rispetto della solidarietà tra colleghi anche in materia di rapporti e di compensi economici.
L’incontro perugino ha lo scopo di fare il punto su tutto questo, sei mesi dopo quell’evento, e di mettere a confronto le varie anime che contribuirono a svilupparlo.
Non so che ne verrà fuori, ma vi terrò aggiornati. Polemiche ed agguati inclusi, naturalmente.