La Fondazione Mps ha annunciato la decisione di cedere fino al 15% del capitale della banca, il che equivale a perderne il controllo, pur mantenendo una quota del 33,5% che le consente un “diritto di veto” su operazioni strategiche non gradite. In pratica non cambia nulla (forse) sotto il profilo tecnico. Ma per la senesità è un colpo durissimo. E una ferita probabilmente non rimarginabile.

Più che una decisione storica, come molti l’hanno definita, è il crollo di una soglia psicologica storica. E la fine di un apriori intimamente radicato nel dna dei senesi: la senesità del Monte dei Paschi. Un dato indiscutibile, genetico, immutabile. Di cui ci si nutre nell’intimo nella famiglia e nelle discussioni di campanile nei bar e sotto gli ombrelloni. Il pilastro su cui si basa la sicurezza del sistema.
Perché se il provvedimento era nell’aria, o se comunque era nell’aria, annunciata e preannunciata, la fine del controllo da parte della Fondazione, cioè del comune e della provincia, sulla terza banca italiana (nonché sull’istituto di credito più antico del mondo, fondato nel 1472), una cosa è parlarne e una cosa è toccarlo con mano.
Insomma una rivoluzione. Con conseguenze economiche, politiche, sociali e soprattutto culturali imprevedibili per la città del Palio. Una comunità che sul Mps, non a caso detto “il grande babbo”, ha costruito nel tempo un cosmo complesso fatto di prosperità diffusa e di controllo ferreo, di potere politico e di identità quasi etnica.
Non starò qui a fare la storia di questa Caporetto, nè a scandagliarne le origini o a cercarne i responsabili. Mi limiterò a dire che, a seguito di un indebitamento sconsiderato, il titolo ha toccato negli ultimi mesi minimi catastrofici. E il mercato ha rimesso il conto.
Il laconico comunicato diffuso dalla Fondazione questo pomeriggio, dopo che da stamattina le voci erano circolate, è la più esplicita testimonianza del senso di smarrita desolazione che si respira a Palazzo Sansedoni e della consapevolezza di ciò che essa produrrà su chi ogni giorno cammina sulle “lastre” del centro storico. E’ un armistizio, è la resa di una comunità che per secoli – non avendo ancora digerito la sconfitta subita dai Fiorentini nel 1555 – ha fatto della fierezza e del proprio modello socioeconomico una bandiera non ammainabile.
E’ vero, gli scricchiolii sinistri c’erano da tempo. Ampie crepe si erano aperte nelle pur massicce mura di sostegno del sistema-Siena (pensiamo alla crisi dell’Università). Teste pesanti sono cadute, vittime della resa dei conti politica e della ricerca di capri espiatorii. Ma, come detto sopra, una cosa è vagheggiare un crollo, un’altra è assistervi in diretta.
E’ anche vero che, come i vertici della Fondazione sottolineano, sotto il profilo tecnico non cambia molto, visto che, restando sopra la quota del 33,5% del capitale, al socio di maggioranza relativa restano, sia in assemblea ordinaria che straordinaria, sostanziali poteri di veto su qualunque operazione strategica non gradita.
“Ma se è così – si chiede la gente per strada – perchè non l’hanno fatto prima?”
Vagli a spiegare gli equilibri politici e i minuetti del partito egemone, che a Siena tutti conoscono, ma che, in una sorta di simulata cecità collettiva, tutti fanno finta di non vedere. Tutta aria fritta, insomma, per il cittadino, il correntista, il contradaiolo. In definitiva, per l’elettore. Per il quale il controllo della banca e del potere sono anche, vorrei dire soprattutto, una questione di muscoli, di potenza, di numeri indiscutibili. Di “rispetto“, come si usa dire.
La discesa sotto quel 48% che, per la gente comune, significa avere in mano le leve del comando, è una sconfitta disorientante. Una caduta di Saigon.
Ed ora, per dirla con Joe Strummer, “the future is unwritten”.