Dopo l’alluvione di commenti a caldo, alcune riflessioni (mie e altrui) sul senso dell’operazione e soprattutto sui punti che la convention fiorentina ha non solo lasciato aperti, ma ha allargato. Trasformando le screpolature in ulcere.

La kermesse si è chiusa da pochi giorni, ma la rete tracima di opinioni, liti e contrapposizioni (qui). La non piacevole sensazione è che ognuno sia rimasto delle stesse idee che aveva prima, sullo sfondo di un caos professionale a cui ormai sarà probabilmente difficile far fronte.
Tra i molti, per lucidità e capacità di sintesi, mi pare ficcante il parere di Amedeo Ricucci, membro del direttivo di Stampa Romana in quota Senza Bavaglio. Al quale mi limito ad aggiungere alcune note.
La Carta (il testo integrale qui), dice in sintesi il collega, rischia di restare lettera morta perchè il suo oggetto attiene poco alla deontologia e molto alle relazioni industriali (cioè all’FNSI). L’unica vera novità sono le sanzioni da comminare ai contrattualizzati che vengono meno all’obbligo morale di tutelare il precariato. Un’assurdità – insiste Ricucci – che confonde la causa con gli effetti, rischiando di innescare una pericolosa guerra interna, quando invece servirebbe un patto di solidarietà tra tutti i giornalisti per mettere con le spalle al muro gli editori che il precariato lo incentivano: non è il caposervizio che schiavizza il precario, al massimo chiude un occhio. Oltre che aberrante, questa via disciplinare al socialismo giornalistico è anche impraticabile, perché sarà difficile stabilire le responsabilità individuali. E a pagare finiranno per essere i soliti sfigati.
Il sindacato, continua il collega, tace. Anche perché il suo unico obiettivo, come ha ammesso a denti stretti Natale, è di evitare che l’ira di precari e freelance si autorganizzi al di fuori della FNSI. D’altronde sono più della metà di quanti praticano oggi la professione. E perderli per il sindacato sarebbe un errore dalle conseguenze incalcolabili. Anche in termini di quote, cioè di poltrone e di stipendi. Meglio perciò rabbonirli e dar loro un osso.
Restano per i precari, conclude Ricucci, una serie di fantasmi che a Firenze hanno fatto solo capolino e il più ingombrante dei quali è che il mercato editoriale italiano non sarà mai in grado di assorbire tutti quelli che aspirano a fare oggi questa professione. Inutile fare i massimalisti e alzare barricate. Vogliamo perciò adoperarci per stabilire criteri equi e regole certe in entrata, come si fa in tutte le altre nazioni, dove solo chi campa facendo il giornalista è considerato a tutti gli effetti un giornalista?
Una lettura che non solo non fa una piega per realismo, ma su certi punti è addirittura ottimistica.
L’autorganizzazione dei precari fuori dal sindacato è già una mezza realtà (nel senso che, col solito metodo della blandizie, è sempre riassorbibile, anche se non con facilità). Il divorzio dei freelance dalla federazione idem, senza contare che, numeri alla mano, tra i liberi professionisti gli iscritti alla Federazione sono un’inezia e quindi il sedicente sindacato “unico” non li rappresenta nemmeno formalmente. La sensazione quindi è che Natale non riuscirà a riportare nella stalla una buona fetta dei buoi che sono scappati da tempo (o non sono mai entrati) e che si sono allontanati fin troppo. Insomma è tardi. Vero anche che il livello di tensione e di malcontento dei precari contro i contrattualizzati, sia per le tutele di cui i secondi godono rispetto ai primi, sia per le presunte violazioni deontologiche che gli vengono attribuite, ha già abbondantemente superato il livello di guardia e con ogni probabilità non è più gestibile se non pagando lo scotto di furiosi scontri.
Resta però, soprattutto, il problema di fondo: nel sistema non c’è posto. Per 100 che, in qualunque forma, “vogliono” (come se fosse un diritto acquisito) fare i giornalisti, il mercato del lavoro è in grado di accoglierne 10, ben che vada.
La prima necessità è allora arrestare la fabbrica delle illusioni, cioè il giornalistificio imperante che ogni anno vomita sul mercato migliaia di nuovi giornalisti destinati in partenza a restare disoccupati a vita. La seconda, strettamente correlata alla prima, è fissare una inderogabile soglia (di reddito e di modo di produzione del medesimo) sotto la quale sia impossibile accedere alla professione. Mettendo insomma ordinisticamente “fuorilegge” i compensi da 2, 5, 10, 20 euro ad articolo non solo si toglierebbe alla fabbrica il combustibile per la sua perversa produzione, ma al tempo stesso si introdurrebbe un tariffario minimo di fatto, garantendo ai giovani aspiranti colleghi la prospettiva di un compenso decente (o nulla) e interrompendo così il moto perpetuo dei sottopagati a vita.
Certo, bisogna guardarsi negli occhi: tutto questo provocherà l’espulsione dal mercato del lavoro di parecchie persone. Ma forse occorre anche affrontare la realtà e chiedersi se queste persone – ricattabili, senza un soldo, senza speranze – in quel mercato ci siano mai realmente state. E se il medico pietoso non rischi di fare, come dice il proverbio, la piaga puzzolente.